Da Mancino a Berlusconi, le verità del boss. Il ministro dell’Interno dell’epoca Nicola Mancino era il destinatario finale delle pressioni esercitate da Cosa Nostra nella stagione delle stragi.
Liberainformazione - Viceversa Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri non sarebbero coinvolti in alcun modo, anche se tramite Vittorio Mangano fu loro indicata la via della conciliazione: in caso contrario la mafia sarebbe ricorsa a nuovi attentati. Sono queste alcune delle rivelazioni più importanti elargite ieri dal boia di Capaci, Giovanni Brusca, nel corso della sua deposizione al processo che vede imputato il boss di Brancaccio Francesco Tagliavia per le stragi del 1993, attualmente in corso a Firenze.
Un messaggio per Berlusconi
Le dichiarazioni sul primo ministro in carica e sul senatore condannato in secondo grado per concorso esterno in associazione mafiosa sono palesemente contradditorie, da una prima analisi. In un primo momento Brusca afferma che i due non sarebbero parte in causa nella trattativa tra Stato e Cosa Nostra - «non c'entrano niente, non sono i mandanti esterni» - ma, successivamente, in sede di controesame, il collaboratore di giustizia rivela di aver inviato – o a fine ‘93 o ad inizio del ’94 – lo stalliere di Arcore, Vittorio Mangano a Milano per spiegare a Berlusconi e Dell’Utri l’opportunità di un accordo su maxiprocesso e 41 bis, per evitare che vi fossero altre stragi. E Mangano avrebbe fatto ritorno in Sicilia con la risposta di Dell’Utri, che si sarebbe dichiarato pronto a mettersi a disposizione dell’organizzazione criminale.
Firenze, Roma e Milano: queste le dolorose tappe di un calvario fatto di violenza e sangue, queste le stragi volute «per risvegliare lo Stato e per consigliarlo a trattare nuovamente». Anche il mancato attentato allo stadio Olimpico di Roma sarebbe stata una vendetta contro i carabinieri, protagonisti della prima fase della trattativa, con Mori e De Donno, che non avrebbero mantenuto le promesse: «Chiudiamo il caso con il vecchio vendicandoci, e apriamo il nuovo». La reazione di Berlusconi non si è fatta attendere e, in tempo reale, il premier ha manifestato il suo stupore per le accuse rivoltegli, a suo dire assolutamente incredibili, anche perché in quel periodo non aveva incarichi politici.
Ed è proprio questo il punto: occorre infatti chiedersi se la trattativa ad un certo punto non sia diventata funzionale ad un intero cambio di classe dirigente, già messa sotto scacco e prossima all’estinzione politica, sotto i colpi delle inchieste di Tangentopoli. Berlusconi ancora una volta sembra quindi eludere il problema, dimenticando proprio la consecutio temporum degli avvenimenti e volendo comunque sottacere che il progetto politico di Forza Italia maturò proprio in quel contesto. Un contesto in cui la stessa Cosa Nostra era alla ricerca di nuovi referenti politici. Sempre dalle parole di Brusca, apprendiamo che «nel '92 Cosa nostra aveva rapporti con la sinistra, con politici locali, con Lima e a livello nazionale con Andreotti».
E uno per Mancino
Lo spartiacque di questi rapporti pregressi coincide con il passaggio dalla prima alla cosiddetta seconda Repubblica, ma ogni contatto cessò del tutto dopo la strage di via D’Amelio. Sempre Brusca spiega che l’uccisione di Falcone era la chiusura di un conto aperto da tempo – la mafia voleva eliminare il suo acerrimo nemico da sempre – ma doveva avere, nelle intenzioni di Totò Riina, l’effetto di pervenire alla revisione del maxiprocesso, dopo la sentenza della Corte di Cassazione del gennaio 1992. Dopo Capaci, l’ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino e Marcello Dell’Utri si sarebbero offerti al capo dei capi come intermediari tra la mafia e nuovi soggetti politici: «gli volevano portare la Lega e un altro soggetto che non ricordo». In cambio di concessioni sul piano legislativo, la mafia sarebbe stata pronta ad offrire voti e a cessare ogni forma di ostilità.
Il vero pezzo forte della deposizione di Brusca, però, è l’indicazione in aula dell’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino come “committente finale” del papello di Riina. L’elenco con le richieste della mafia allo Stato avrebbero avuto come destinatario ultimo il ministro democristiano che, in quelle settimane, aveva preso il posto di Vincenzo Scotti al Viminale. Mancino così torna nell’occhio del ciclone, dopo le polemiche collegate all’incontro – da lui sempre negato con forza – con Paolo Borsellino, chiamato in tutta fretta al ministero, mentre stava raccogliendo a Rebibbia le confessioni di un altro collaboratore di straordinaria importanza come Gaspare Mutolo. Alcuni giorni prima della strage di via D’Amelio, Brusca avrebbe incontrato Riina che avrebbe manifestato la propria soddisfazione per l’andamento dell’inquietante dialogo tra istituzioni e mafia: «Finalmente si sono fatti sotto, gli ho consegnato un papello con tutta una serie di richieste». Riserbo su chi fosse l’intermediario delle missive di Cosa Nostra ma indicazione certa del destinatario: Mancino appunto.
Anche la replica dell’ex titolare del Viminale è arrivata a stretto giro di posta: «È una vendetta contro chi ha combattuto la mafia». Brusca ha anche detto di aver fatto il nome di Mancino al pm Gabriele Chelazzi che ne avrebbe preso atto, in attesa di poterlo provare processualmente. Oggi morto Chelazzi – stroncato anni fa da un infarto – il collaboratore porta le sue accuse direttamente in aula.
Tanto rumore per nulla?
Dall’arresto di Massimo Ciancimino alle verità dell’ex capomafia di San Giuseppe Jato, passando per il linciaggio mediatico del giudice Antonio Ingroia: in queste ultime ore tornano d’attualità le vicende di quel lontano passaggio storico, davvero epocale per il presente e il futuro della nostra democrazia, che attende risposte certe. La sensazione principale è che il polverone delle polemiche che si è alzato immediatamente possa far perdere il filo del ragionamento, che deve guidare la difficile ricostruzione degli avvenimenti del passato, una ricostruzione che deve poi reggere al vaglio del pubblico dibattimento.
Se Veltroni chiede la deposizione in sede di Commissione Antimafia di Silvio Berlusconi, perché chiarisca quanto a sua conoscenza, il legale del premier Ghedini respinge al mittente ogni accusa, tirando in ballo strumentalmente Massimo Ciancimino: «Le leggi antimafia, i provvedimenti sul 41 bis e il quotidiano contrasto al fenomeno mafioso, con la cattura dei latitanti più pericolosi e il sequestro e la confisca di beni per svariati miliardi di euro sono la miglior risposta alle illazioni di alcuni esponenti dell'opposizione che farebbero bene a ricordarsi della recente vicenda di Massimo Ciancimino, beatificato da certa stampa e oggetto di entusiastici commenti di vari esponenti del centrosinistra, la cui caratura si è finalmente appalesata, con la recente ordinanza di custodia cautelare, in tutta la sua evidenza».
Ghedini smentisce quindi ogni possibile contatto e ricorda che è lo stesso Brusca ad escludere ogni collegamento del premier con le vicende oggetto della deposizione di ieri. Ora si attendono nuovi sviluppi ma c’è da scommettere che la partita vera si giochi sul versante dell’esito finale delle dichiarazioni rese da Massimo Ciancimino all’autorità giudiziaria di Palermo, prima di essere arrestato.
Liberainformazione - Viceversa Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri non sarebbero coinvolti in alcun modo, anche se tramite Vittorio Mangano fu loro indicata la via della conciliazione: in caso contrario la mafia sarebbe ricorsa a nuovi attentati. Sono queste alcune delle rivelazioni più importanti elargite ieri dal boia di Capaci, Giovanni Brusca, nel corso della sua deposizione al processo che vede imputato il boss di Brancaccio Francesco Tagliavia per le stragi del 1993, attualmente in corso a Firenze.
Un messaggio per Berlusconi
Le dichiarazioni sul primo ministro in carica e sul senatore condannato in secondo grado per concorso esterno in associazione mafiosa sono palesemente contradditorie, da una prima analisi. In un primo momento Brusca afferma che i due non sarebbero parte in causa nella trattativa tra Stato e Cosa Nostra - «non c'entrano niente, non sono i mandanti esterni» - ma, successivamente, in sede di controesame, il collaboratore di giustizia rivela di aver inviato – o a fine ‘93 o ad inizio del ’94 – lo stalliere di Arcore, Vittorio Mangano a Milano per spiegare a Berlusconi e Dell’Utri l’opportunità di un accordo su maxiprocesso e 41 bis, per evitare che vi fossero altre stragi. E Mangano avrebbe fatto ritorno in Sicilia con la risposta di Dell’Utri, che si sarebbe dichiarato pronto a mettersi a disposizione dell’organizzazione criminale.
Firenze, Roma e Milano: queste le dolorose tappe di un calvario fatto di violenza e sangue, queste le stragi volute «per risvegliare lo Stato e per consigliarlo a trattare nuovamente». Anche il mancato attentato allo stadio Olimpico di Roma sarebbe stata una vendetta contro i carabinieri, protagonisti della prima fase della trattativa, con Mori e De Donno, che non avrebbero mantenuto le promesse: «Chiudiamo il caso con il vecchio vendicandoci, e apriamo il nuovo». La reazione di Berlusconi non si è fatta attendere e, in tempo reale, il premier ha manifestato il suo stupore per le accuse rivoltegli, a suo dire assolutamente incredibili, anche perché in quel periodo non aveva incarichi politici.
Ed è proprio questo il punto: occorre infatti chiedersi se la trattativa ad un certo punto non sia diventata funzionale ad un intero cambio di classe dirigente, già messa sotto scacco e prossima all’estinzione politica, sotto i colpi delle inchieste di Tangentopoli. Berlusconi ancora una volta sembra quindi eludere il problema, dimenticando proprio la consecutio temporum degli avvenimenti e volendo comunque sottacere che il progetto politico di Forza Italia maturò proprio in quel contesto. Un contesto in cui la stessa Cosa Nostra era alla ricerca di nuovi referenti politici. Sempre dalle parole di Brusca, apprendiamo che «nel '92 Cosa nostra aveva rapporti con la sinistra, con politici locali, con Lima e a livello nazionale con Andreotti».
E uno per Mancino
Lo spartiacque di questi rapporti pregressi coincide con il passaggio dalla prima alla cosiddetta seconda Repubblica, ma ogni contatto cessò del tutto dopo la strage di via D’Amelio. Sempre Brusca spiega che l’uccisione di Falcone era la chiusura di un conto aperto da tempo – la mafia voleva eliminare il suo acerrimo nemico da sempre – ma doveva avere, nelle intenzioni di Totò Riina, l’effetto di pervenire alla revisione del maxiprocesso, dopo la sentenza della Corte di Cassazione del gennaio 1992. Dopo Capaci, l’ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino e Marcello Dell’Utri si sarebbero offerti al capo dei capi come intermediari tra la mafia e nuovi soggetti politici: «gli volevano portare la Lega e un altro soggetto che non ricordo». In cambio di concessioni sul piano legislativo, la mafia sarebbe stata pronta ad offrire voti e a cessare ogni forma di ostilità.
Il vero pezzo forte della deposizione di Brusca, però, è l’indicazione in aula dell’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino come “committente finale” del papello di Riina. L’elenco con le richieste della mafia allo Stato avrebbero avuto come destinatario ultimo il ministro democristiano che, in quelle settimane, aveva preso il posto di Vincenzo Scotti al Viminale. Mancino così torna nell’occhio del ciclone, dopo le polemiche collegate all’incontro – da lui sempre negato con forza – con Paolo Borsellino, chiamato in tutta fretta al ministero, mentre stava raccogliendo a Rebibbia le confessioni di un altro collaboratore di straordinaria importanza come Gaspare Mutolo. Alcuni giorni prima della strage di via D’Amelio, Brusca avrebbe incontrato Riina che avrebbe manifestato la propria soddisfazione per l’andamento dell’inquietante dialogo tra istituzioni e mafia: «Finalmente si sono fatti sotto, gli ho consegnato un papello con tutta una serie di richieste». Riserbo su chi fosse l’intermediario delle missive di Cosa Nostra ma indicazione certa del destinatario: Mancino appunto.
Anche la replica dell’ex titolare del Viminale è arrivata a stretto giro di posta: «È una vendetta contro chi ha combattuto la mafia». Brusca ha anche detto di aver fatto il nome di Mancino al pm Gabriele Chelazzi che ne avrebbe preso atto, in attesa di poterlo provare processualmente. Oggi morto Chelazzi – stroncato anni fa da un infarto – il collaboratore porta le sue accuse direttamente in aula.
Tanto rumore per nulla?
Dall’arresto di Massimo Ciancimino alle verità dell’ex capomafia di San Giuseppe Jato, passando per il linciaggio mediatico del giudice Antonio Ingroia: in queste ultime ore tornano d’attualità le vicende di quel lontano passaggio storico, davvero epocale per il presente e il futuro della nostra democrazia, che attende risposte certe. La sensazione principale è che il polverone delle polemiche che si è alzato immediatamente possa far perdere il filo del ragionamento, che deve guidare la difficile ricostruzione degli avvenimenti del passato, una ricostruzione che deve poi reggere al vaglio del pubblico dibattimento.
Se Veltroni chiede la deposizione in sede di Commissione Antimafia di Silvio Berlusconi, perché chiarisca quanto a sua conoscenza, il legale del premier Ghedini respinge al mittente ogni accusa, tirando in ballo strumentalmente Massimo Ciancimino: «Le leggi antimafia, i provvedimenti sul 41 bis e il quotidiano contrasto al fenomeno mafioso, con la cattura dei latitanti più pericolosi e il sequestro e la confisca di beni per svariati miliardi di euro sono la miglior risposta alle illazioni di alcuni esponenti dell'opposizione che farebbero bene a ricordarsi della recente vicenda di Massimo Ciancimino, beatificato da certa stampa e oggetto di entusiastici commenti di vari esponenti del centrosinistra, la cui caratura si è finalmente appalesata, con la recente ordinanza di custodia cautelare, in tutta la sua evidenza».
Ghedini smentisce quindi ogni possibile contatto e ricorda che è lo stesso Brusca ad escludere ogni collegamento del premier con le vicende oggetto della deposizione di ieri. Ora si attendono nuovi sviluppi ma c’è da scommettere che la partita vera si giochi sul versante dell’esito finale delle dichiarazioni rese da Massimo Ciancimino all’autorità giudiziaria di Palermo, prima di essere arrestato.
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