martedì, maggio 24, 2011
della nostra redattrice Federica Scorpo

Prendo spunto da un articolo di Viviana Mazza, giornalista del Corriere della Sera che esprime il suo dissenso verso colleghi e opinione pubblica che ritengono le donne non adatte al lavoro di corrispondenti di guerra o comunque in certi paesi e situazioni. Non è la prima volta che questo dibattito si accende. Il caso della giornalista americana Lara Logan della Cbs, che ha denunciato di essere stata stuprata al Cairo da decine di uomini nel giorno della caduta di Mubarak, ha riaperto il dibattito: le reporter di sesso femminile sono adatte in luoghi pericolosi e in certi paesi dove le donne sono già di per sé vittime di violenza? Considerare la donna più vulnerabile dell’uomo è una storia antica quanto il mondo, ma commentare “se l’è cercata” per giustificare la violenza è un’affermazione lontana dal concetto di dignità della donna in quanto essere umano, non diversa dall’uomo. Essere donna è necessariamente sinonimo di “obiettivo di violenza”? Può essere considerata quasi una colpa da espiare?

Se in un primo momento le giornaliste americane hanno difeso il loro ruolo esprimendo il desiderio di diventare portavoce delle donne stesse, adesso hanno manifestato la necessità di documentare le violenze subite. Stilare infatti una statistica sulle violenze sulle donne nelle zone di guerra è al momento difficile, e da qui nasce l’esigenza e forse il dovere da parte loro di documentare in qualche modo la realtà.

L’esperienza di un’altra corrispondente, Jineth Bedoya, giornalista colombiana, rapita e stuprata selvaggiamente, rende bene l’idea. Jineth, dopo aver subito feroci violenze, è tornata a lavoro solo dopo due settimane e nessun copevole è stato e mai sarà punito. La maggior parte di queste violenze infatti rimane impunita e spesso le giornaliste sono costrette a proseguire il loro lavoro come se niente fosse accaduto!
Le torture e le violenze tuttavia non sono esclusivamente rivolte alle donne, perché nelle zone di guerra anche gli uomini vengono stuprati. Il punto dunque non è la distinzione di sessi ma il fatto che, per fare bene il loro lavoro a servizio dell’informazione, uomini e donne rischiano la vita allo stesso modo. Di fronte alle atrocità della guerra, chiunque è vulnerabile.

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