Drammatica la situazione in Yemen, dove gli scontri hanno provocato solo ieri 50 morti nella capitale Sanaa. Attaccato, con numerosi colpi di granata, il palazzo presidenziale.
Radio Vaticana - Ferito il presidente Saleh, che è stato ricoverato per cure mediche in un ospedale dell'Arabia Saudita, ma che ieri sera è apparso in TV, smentendo le voci sulla sua morte, circolate nel corso della giornata. Saleh ha attribuito l’attacco alla confederazione tribale degli Ashed, definita "una banda di fuorilegge", ed ha invitato le forze armate e di sicurezza a rispondere con "fermezza alla sfida". Un affondo che preoccupa la comunità internazionale: la Germania ha chiuso la propria ambasciata, mentre l’UE ha messo a punto un piano di evacuazione per i cittadini europei. Per un commento su quanto sta accadendo nel Paese, Salvatore Sabatino ha intervistato Camille Eid, esperto di Paesi arabi del quotidiano “Avvenire”: ascolta
R. – La guerra civile è ormai un dato di fatto nello Yemen. Il Paese è spaccato in due parti. Abbiamo la guardia presidenziale e le élite dell’esercito della sicurezza nazionale che sono sotto il comando del presidente, anche perché sono comandati o da suo figlio o dai suoi nipoti. Dall’altra parte le tribù principali - chiamarle “bande” non corrisponde alla verità perché si tratta di una delle principali tribù, gli Ashed, e dei loro alleati - costituiscono una buona parte della popolazione. Qui siamo in piena guerra civile e tocca anche la capitale Sanaa.
D. – Lo Yemen resta un Paese strategico per la lotta al terrorismo e non è un caso che da Washington sia giunta la condanna per l’attacco al palazzo presidenziale. Secondo te, gli Stati Uniti temono un cambio al vertice?
R. – Non direi che temono proprio. Vogliono sicuramente avere certezze, garanzie, circa il futuro del Paese. Non scordiamoci che l’Europa e gli Stati Uniti hanno chiamato il presidente Saleh a destituirsi e ad accettare la mediazione dei Paesi del Golfo e quindi accettare almeno questa transizione. Chiaramente gli Stati Uniti già da parecchi mesi insistono sul fatto che lo Yemen rappresenta un terreno fertile per il fondamentalismo e soprattutto per al Qaeda. I giornali americani parlano di una guerra segreta condotta dagli Stati Uniti insieme all’esercito yemenita contro al Qaeda e del fatto che la principale minaccia alla sicurezza Usa è rappresentata proprio dalla presenza di al Qaeda nello Yemen.
D. - Il Consiglio di cooperazione del Golfo si è detto intenzionato a riprendere la mediazione tra Saleh e le opposizioni, interrotta – lo ricordiamo – il 23 maggio scorso. Ha ancora peso secondo te questa mediazione?
R. – Sì, nel senso che i Paesi del Golfo hanno più influenza di altri Stati sullo Yemen, che dipende in gran parte da questi sei Paesi. Ma sappiamo che il presidente Saleh, quando è arrivato il momento di mettere la firma a questo accordo, ha cambiato idea. Non so fino a che punto l’opposizione gli darà ulteriore tempo per ritornare a questa mediazione. Penso che adesso la parola sia passata alle armi. (bf)
Radio Vaticana - Ferito il presidente Saleh, che è stato ricoverato per cure mediche in un ospedale dell'Arabia Saudita, ma che ieri sera è apparso in TV, smentendo le voci sulla sua morte, circolate nel corso della giornata. Saleh ha attribuito l’attacco alla confederazione tribale degli Ashed, definita "una banda di fuorilegge", ed ha invitato le forze armate e di sicurezza a rispondere con "fermezza alla sfida". Un affondo che preoccupa la comunità internazionale: la Germania ha chiuso la propria ambasciata, mentre l’UE ha messo a punto un piano di evacuazione per i cittadini europei. Per un commento su quanto sta accadendo nel Paese, Salvatore Sabatino ha intervistato Camille Eid, esperto di Paesi arabi del quotidiano “Avvenire”: ascolta
R. – La guerra civile è ormai un dato di fatto nello Yemen. Il Paese è spaccato in due parti. Abbiamo la guardia presidenziale e le élite dell’esercito della sicurezza nazionale che sono sotto il comando del presidente, anche perché sono comandati o da suo figlio o dai suoi nipoti. Dall’altra parte le tribù principali - chiamarle “bande” non corrisponde alla verità perché si tratta di una delle principali tribù, gli Ashed, e dei loro alleati - costituiscono una buona parte della popolazione. Qui siamo in piena guerra civile e tocca anche la capitale Sanaa.
D. – Lo Yemen resta un Paese strategico per la lotta al terrorismo e non è un caso che da Washington sia giunta la condanna per l’attacco al palazzo presidenziale. Secondo te, gli Stati Uniti temono un cambio al vertice?
R. – Non direi che temono proprio. Vogliono sicuramente avere certezze, garanzie, circa il futuro del Paese. Non scordiamoci che l’Europa e gli Stati Uniti hanno chiamato il presidente Saleh a destituirsi e ad accettare la mediazione dei Paesi del Golfo e quindi accettare almeno questa transizione. Chiaramente gli Stati Uniti già da parecchi mesi insistono sul fatto che lo Yemen rappresenta un terreno fertile per il fondamentalismo e soprattutto per al Qaeda. I giornali americani parlano di una guerra segreta condotta dagli Stati Uniti insieme all’esercito yemenita contro al Qaeda e del fatto che la principale minaccia alla sicurezza Usa è rappresentata proprio dalla presenza di al Qaeda nello Yemen.
D. - Il Consiglio di cooperazione del Golfo si è detto intenzionato a riprendere la mediazione tra Saleh e le opposizioni, interrotta – lo ricordiamo – il 23 maggio scorso. Ha ancora peso secondo te questa mediazione?
R. – Sì, nel senso che i Paesi del Golfo hanno più influenza di altri Stati sullo Yemen, che dipende in gran parte da questi sei Paesi. Ma sappiamo che il presidente Saleh, quando è arrivato il momento di mettere la firma a questo accordo, ha cambiato idea. Non so fino a che punto l’opposizione gli darà ulteriore tempo per ritornare a questa mediazione. Penso che adesso la parola sia passata alle armi. (bf)
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