Comunicato di ACS-Aiuto alla Chiesa che Soffre sulla grave situazione in Somalia, con le dichiarazioni di padre Amir Jaje, nuovo superiore dei domenicani di Bagdad e vicario provinciale per il suo Ordine nel mondo arabo
«Mi sono detto che se non ero tra i martiri uccisi quel giorno era perché Dio aveva bisogno di me. Ho capito che la mia missione è quella di essere al fianco dei cristiani che non possono lasciare Bagdad e che ci ripetono sempre che noi siamo il loro unico bene». Padre Amir Jaje, nuovo superiore dei domenicani di Bagdad e vicario provinciale per il suo Ordine nel mondo arabo – che conta due conventi in Iraq, uno al Cairo, uno ad Algeri e un confratello in Libano – descrive così ad Aiuto alla Chiesa che Soffre la drammatica situazione dei cristiani iracheni e ricorda il tragico attentato alla chiesa di “Nostra Signora del Perpetuo Soccorso” dello scorso 31 ottobre.
Quel giorno padre Amir avrebbe dovuto trovarsi nella chiesa siro-cattolica per celebrare la Messa, ma all’ultimo momento aveva dovuto farsi sostituire. Quando i fedeli e i due sacerdoti furono presi in ostaggio, lui si trovava nel Nord del Paese. Non appena fu avvisato della tragedia che si era computa rientrò immediatamente a Baghdad. «È’ stato terribile – racconta ad ACS – la Chiesa era disseminata di cadaveri». Il domenicano era molto amico dei due sacerdoti uccisi, il più giovane dei quali, Wasim, era suo cugino ed aveva solo 27 anni. «Quando ho saputo che 58 persone erano morte mi sono detto che non c’era più alcuna speranza per l’Iraq, che dovevamo andarcene. Non ne potevo più». Nei giorni successivi, però, stando accanto ai feriti e alle famiglie delle vittime ha capito l’importanza della sua presenza: «Non avevo il diritto di perdere la speranza, se ero vivo era per compiere una missione».
I domenicani sono presenti in Iraq da oltre 260 anni. Padre Jaje è entrato nel seminario di Bagdad appena 17enne ed è stato ordinato prete nel 1995. È tornato nella capitale irachena nel settembre 2003, dopo la caduta di Saddam Hussein; nel 2008 si è trasferito in Francia per un dottorato di due anni ed è rientrato in Iraq il 22 ottobre 2010, una settimana prima del tragico attentato. Il sacerdote descrive ad ACS uno scenario iracheno drammatico e riferisce di una drastica riduzione del numero dei preti. Fino a sei o sette anni fa ve ne erano una trentina, mentre oggi, di rito caldeo, ne sono rimasti appena otto. «Viviamo – racconta – nella perenne insicurezza. Il giorno, quando esco dal convento non so mai se vi farò ritorno. Malgrado la paura, dobbiamo però vivere e credere nell’avvenire».
Nonostante le gravi difficoltà, la fede della gente è molto solida e il bisogno di un incontro personale con Dio estremamente sentito. Mentre officiava la Messa del Venerdì Santo, padre Amir è rimasto sorpreso dalla grande partecipazione dei fedeli. «Sono testimonianze molto forti per noi preti. Nessuno – ha affermato – può mettere a tacere la Parola di Dio che è il seme di questa terra. I terroristi possono uccidere le persone, ma non potranno mai toglierci il tesoro più grande che è la nostra fede ».
Riguardo lo stato dei rapporti interreligiosi, padre Amir ha fatto notare come si parli troppo spesso di dialogo, quando invece la priorità è quella di imparare a convivere perché «il dialogo è astratto, mentre la convivenza fa parte della vita di tutti i giorni». Per un pacifico rapporto con l’Islam è necessario recuperare una base comune di valori umani, molti dei quali andati persi a causa della guerra. «È proprio su questi valori che dobbiamo lavorare per ricostruire l’Iraq», ha affermato.
La situazione dei cristiani è delle più difficili. Alcune frange estremiste vogliono eliminare la loro presenza nel Paese, mentre altri approfittano delle violenze per arricchirsi. «Al-Qaeda vuole sradicare tutto quanto è estraneo all’Islam – racconta ad ACS padre Amir – e come tutte le minoranze siamo vittima dei conflitti tra grandi gruppi». I cristiani diventano spesso moneta di scambio tra sunniti e sciiti oppure, come accade nel Nord, tra sunniti e curdi. Questi ultimi, ad esempio, sostengono di voler difendere i cristiani nella valle di Ninive (tra il Kurdistan e Mossul) unicamente per impadronirsi di territori storicamente appartenenti ai sunniti. «Se un giorno si arrivasse ad un conflitto – spiega – saremo noi cristiani a pagare il prezzo più alto. Riunire i fedeli in una zona in particolare è molto pericoloso, perché così rischieremmo di essere completamente cancellati. Credo che i cristiani dovrebbero essere in tutto l’Iraq, altrimenti l’intero Paese perderebbe una grande ricchezza».
Nel solo 2010, confermando un sostegno in corso da decenni, Aiuto alla Chiesa che Soffre ha sostenuto la Chiesa locale con iniziative per 500mila euro. Il supporto è destinato a costruzione e manutenzione di chiese ed altri edifici religiosi, come il Centro per la catechesi nella diocesi di Aqra, ma anche alla formazione di sacerdoti, religiosi e altri operatori pastorali. Sul piano culturale, da segnalare il contributo alla rivista Nagm al-Masriq [Stella d’Oriente].
«Mi sono detto che se non ero tra i martiri uccisi quel giorno era perché Dio aveva bisogno di me. Ho capito che la mia missione è quella di essere al fianco dei cristiani che non possono lasciare Bagdad e che ci ripetono sempre che noi siamo il loro unico bene». Padre Amir Jaje, nuovo superiore dei domenicani di Bagdad e vicario provinciale per il suo Ordine nel mondo arabo – che conta due conventi in Iraq, uno al Cairo, uno ad Algeri e un confratello in Libano – descrive così ad Aiuto alla Chiesa che Soffre la drammatica situazione dei cristiani iracheni e ricorda il tragico attentato alla chiesa di “Nostra Signora del Perpetuo Soccorso” dello scorso 31 ottobre.
Quel giorno padre Amir avrebbe dovuto trovarsi nella chiesa siro-cattolica per celebrare la Messa, ma all’ultimo momento aveva dovuto farsi sostituire. Quando i fedeli e i due sacerdoti furono presi in ostaggio, lui si trovava nel Nord del Paese. Non appena fu avvisato della tragedia che si era computa rientrò immediatamente a Baghdad. «È’ stato terribile – racconta ad ACS – la Chiesa era disseminata di cadaveri». Il domenicano era molto amico dei due sacerdoti uccisi, il più giovane dei quali, Wasim, era suo cugino ed aveva solo 27 anni. «Quando ho saputo che 58 persone erano morte mi sono detto che non c’era più alcuna speranza per l’Iraq, che dovevamo andarcene. Non ne potevo più». Nei giorni successivi, però, stando accanto ai feriti e alle famiglie delle vittime ha capito l’importanza della sua presenza: «Non avevo il diritto di perdere la speranza, se ero vivo era per compiere una missione».
I domenicani sono presenti in Iraq da oltre 260 anni. Padre Jaje è entrato nel seminario di Bagdad appena 17enne ed è stato ordinato prete nel 1995. È tornato nella capitale irachena nel settembre 2003, dopo la caduta di Saddam Hussein; nel 2008 si è trasferito in Francia per un dottorato di due anni ed è rientrato in Iraq il 22 ottobre 2010, una settimana prima del tragico attentato. Il sacerdote descrive ad ACS uno scenario iracheno drammatico e riferisce di una drastica riduzione del numero dei preti. Fino a sei o sette anni fa ve ne erano una trentina, mentre oggi, di rito caldeo, ne sono rimasti appena otto. «Viviamo – racconta – nella perenne insicurezza. Il giorno, quando esco dal convento non so mai se vi farò ritorno. Malgrado la paura, dobbiamo però vivere e credere nell’avvenire».
Nonostante le gravi difficoltà, la fede della gente è molto solida e il bisogno di un incontro personale con Dio estremamente sentito. Mentre officiava la Messa del Venerdì Santo, padre Amir è rimasto sorpreso dalla grande partecipazione dei fedeli. «Sono testimonianze molto forti per noi preti. Nessuno – ha affermato – può mettere a tacere la Parola di Dio che è il seme di questa terra. I terroristi possono uccidere le persone, ma non potranno mai toglierci il tesoro più grande che è la nostra fede ».
Riguardo lo stato dei rapporti interreligiosi, padre Amir ha fatto notare come si parli troppo spesso di dialogo, quando invece la priorità è quella di imparare a convivere perché «il dialogo è astratto, mentre la convivenza fa parte della vita di tutti i giorni». Per un pacifico rapporto con l’Islam è necessario recuperare una base comune di valori umani, molti dei quali andati persi a causa della guerra. «È proprio su questi valori che dobbiamo lavorare per ricostruire l’Iraq», ha affermato.
La situazione dei cristiani è delle più difficili. Alcune frange estremiste vogliono eliminare la loro presenza nel Paese, mentre altri approfittano delle violenze per arricchirsi. «Al-Qaeda vuole sradicare tutto quanto è estraneo all’Islam – racconta ad ACS padre Amir – e come tutte le minoranze siamo vittima dei conflitti tra grandi gruppi». I cristiani diventano spesso moneta di scambio tra sunniti e sciiti oppure, come accade nel Nord, tra sunniti e curdi. Questi ultimi, ad esempio, sostengono di voler difendere i cristiani nella valle di Ninive (tra il Kurdistan e Mossul) unicamente per impadronirsi di territori storicamente appartenenti ai sunniti. «Se un giorno si arrivasse ad un conflitto – spiega – saremo noi cristiani a pagare il prezzo più alto. Riunire i fedeli in una zona in particolare è molto pericoloso, perché così rischieremmo di essere completamente cancellati. Credo che i cristiani dovrebbero essere in tutto l’Iraq, altrimenti l’intero Paese perderebbe una grande ricchezza».
Nel solo 2010, confermando un sostegno in corso da decenni, Aiuto alla Chiesa che Soffre ha sostenuto la Chiesa locale con iniziative per 500mila euro. Il supporto è destinato a costruzione e manutenzione di chiese ed altri edifici religiosi, come il Centro per la catechesi nella diocesi di Aqra, ma anche alla formazione di sacerdoti, religiosi e altri operatori pastorali. Sul piano culturale, da segnalare il contributo alla rivista Nagm al-Masriq [Stella d’Oriente].
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