Con l’annullamento della Giunta capitolina ad opera del TAR del Lazio si riapre l’annoso dibattito sulle “quote rosa”. E’ questa la strada giusta per realizzare una reale parità dei sessi, pienamente rispettosa dell’essere donna e del pubblico interesse ad avere istituzioni che funzionino?
E’ di questi giorni la notizia dell’avvenuto “annullamento” della Giunta del Comune di Roma ad opera del TAR per non avere il Sindaco assicurato “una equilibrata presenza di uomini e di donne”, come prescritto dall’art. 5 dello Statuto comunale. La norma da ultimo citata è molto “avanzata” rispetto alle previsioni contenute negli Statuti degli altri comuni o province italiane
, i quali o nulla dispongono al riguardo oppure si limitano a stabilire – è il caso dello Statuto provinciale di Taranto e di quello comunale di Molfetta – che il Sindaco o il Presidente della Provincia “nella formazione della Giunta, assicura la presenza di entrambi i sessi” (quindi, affinché la previsione statutaria sia rispettata, in quest’ultimo caso, basterebbe la nomina anche di un solo assessore donna in una Giunta composta per il resto da uomini). L’art. 5 dello Statuto capitolino invece richiede una “presenza equilibrata di uomini e donne” (a dire il vero, non solo in seno alla Giunta, ma anche nelle nomine dei responsabili degli uffici e dei servizi e nell’attribuzione degli incarichi dirigenziali), introducendo delle vere e proprie “quote rosa”, anche se indeterminate (che vuol dire, infatti, “presenza equilibrata”? la metà dei componenti o anche percentuali inferiori?).
Quello delle c. d. “quote rosa” (per la precisione, si dovrebbe parlare di quote di rappresentanza minima dei sessi, anche se, nell’attuale momento storico, per ovvi motivi, sono le donne a trarne più vantaggio) è un tema molto dibattuto, anche perché è di quest’anno la legge che introduce quote analoghe nell’ambito dei consigli di amministrazione delle società quotate in borsa e di quelle non quotate a partecipazione pubblica. La legge in questione prevede che, a partire dal 2012, nei Cda delle predette società il genere meno rappresentato debba ottenere almeno 1/5 degli amministratori eletti, e almeno 1/3 a far data dal 2015. Nell’ottica del legislatore è quindi 1 su 3 il rapporto che, a regime, assicura l’equilibrata presenza dei sessi nei posti di comando delle grandi società. L’inosservanza di tale rapporto ha delle conseguenze pesanti per la vita della società, che in prima battuta sarà colpita, previa diffida da parte della Consob, da sanzioni amministrative pecuniarie da 100000 ad 1 milione di eruo e, in caso di persistente inadempimento, con lo scioglimento del Cda.
Quote rosa, infine, sono previste anche dalla normativa nazionale per l’elezione dei membri del Parlamento europeo. Infatti, l’art. 56 del Codice delle pari opportunità (d. lgs. n. 198/2006) stabilisce che, nella formazione delle liste elettorali, nessuno dei due sessi debba essere rappresentato in misura superiore ai due terzi e che, in caso di trasgressione, l’importo del rimborso-spese elettorale è ridotto, per i partiti e i movimenti che hanno presentato liste, in misura proporzionale al numero dei candidati in più rispetto a quello massimo consentito. Inoltre, le liste “unisessuali” (cioè con candidati tutti appartenenti allo stesso sesso) sono inammissibili.
Attraverso lo strumento in questione si cerca di dare attuazione al principio, ormai espressamente sancito in Costituzione, delle pari opportunità. L’art. 51, comma 1 della Costituzione (come modificato nel 2003), infatti, dopo aver ribadito che tutti i cittadini, dell’uno e dell’altro sesso, possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, precisa che “a tal fine, la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini”.
Pur con le comprensibili ragioni che stanno a monte, che le quote rosa costituiscano mezzo adatto al fine indicato rimane però tutto da dimostrare. Non può sfuggire all’osservatore attento che la fissazione di quote di rappresentanza minima di genere rigidamente predeterminate dal legislatore possa nuocere gravemente all’interesse pubblico, oltre che andar contro al comune buon senso. Dobbiamo infatti rilevare come tutt’oggi esistano settori della vita e lavorativi in cui è netta la prevalenza di un sesso rispetto all’altro. Una netta prevalenza di donne si riscontra ad esempio nel campo dell’insegnamento, soprattutto nella scuola materna e primaria, o in taluni settori dell’artigianato e dell’industria. Eppure, nessuno si sognerebbe in questi ambiti di invocare quote di riserva in favore degli uomini!
La necessità delle quote di rappresentanza minima di genere invece pare emergere solo in quei settori tradizionalmente dominati dagli uomini, che corrispondono a posti di guida e di comando tanto nelle istituzioni quanto nel mondo degli affari. Alla base è difficile non scorgere l’influsso di una ideologia del potere “al femminile”, che auspicherebbe un mondo tutto “rosa”: qualora le donne salissero al potere – ci assicurano le femministe – avremmo un mondo migliore, più pacifico, più pulito, più onesto, e via dicendo. Anche l’economia sarebbe più florida. Tanto per fare un esempio, Anna Maria Tarantola, vicedirettore della Banca d’Italia, non ha dubbi: “Le imprese condotte da donne – dichiara – hanno, a parità di altri fattori, minori rischi di default”.
Questa ideologia del potere al femminile, però, come tutte le ideologie, pecca di eccessivo astrattismo, dimostrandosi miope di fronte alla realtà, la quale mai si lascia ricondurre a ristretti schemi concettuali costruiti ad arte. Quello che non si ha il coraggio di considerare, quando si parla di quote rosa, è che non tutte le donne sono interessate ad avere posti di comando nella società, non tutte sono attratte dalla vita politica o dalla carriera imprenditoriale. Molte preferiscono dedicarsi alla cura dei figli, sia dentro che fuori casa. Non è un caso che l’insegnamento o la stessa catechesi sia un settore predominato dalle donne: questo è un riflesso di quell’istinto materno che è innato in loro. Considerare tutto ciò come il semplice retaggio di una civiltà maschilista e patriarcale significa non rendere affatto giustizia alle donne e alla loro particolare sensibilità, che le porta a realizzarsi più negli affetti che nel potere, a differenza di quanto fanno solitamente gli uomini. Paradossalmente, i sostenitori (o le sostenitrici) del potere “al femminile” non fanno che applicare alle donne, di cui si vantano di interpretare le attese e i bisogni, categorie e modi di pensare tipicamente maschili. Dunque, una sorta di maschilismo “evoluto”, al passo con i tempi, mascherato da femminismo.
Chi scrive non pensa certo che le donne, in quanto tali, siano incapaci di portare un valido contributo anche in politica o nell’economia, come in ogni altro settore professionale e umano. Bisogna solo guardarsi dalle generalizzazioni, perché quello che va bene per alcune donne può non andar bene per altre. Purtroppo quando si perde di vista questo principio le conseguenze, a livello anche sociale, possono essere devastanti.
Le quote rosa offrono un illuminante insegnamento al riguardo. Se per legge si impone che le liste elettorali, così come gli organi elettivi o i consigli di amministrazione, debbano avere una misura minima garantita di rappresentanza femminile, in mancanza di donne idonee ad occupare posti di così alta responsabilità il sistema, lungi dal realizzare un principio di pari opportunità, rischia di creare delle pericolose sacche di disfunzionalità. Un sistema così congegnato, infatti, non solo finisce col risultare iniquo (configurando una discriminazione al rovescio) nella misura in cui la presenza “femminile” negli organi elettivi non rispecchi la proporzione “reale” di donne impegnate in politica o nel mondo degli affari, ma addirittura nuoce all’interesse pubblico, poiché ad un criterio “meritocratico” ne sostituisce uno basato sulla “preferenza” di genere. Il principio di eguaglianza potrà invero dirsi compiutamente realizzato quando nessuno si meraviglierà più che un organo politico o societario sia composto di soli uomini o di sole donne, purché si tratti di persone realmente competenti e preparate al ruolo da ricoprire.
E’ di questi giorni la notizia dell’avvenuto “annullamento” della Giunta del Comune di Roma ad opera del TAR per non avere il Sindaco assicurato “una equilibrata presenza di uomini e di donne”, come prescritto dall’art. 5 dello Statuto comunale. La norma da ultimo citata è molto “avanzata” rispetto alle previsioni contenute negli Statuti degli altri comuni o province italiane
, i quali o nulla dispongono al riguardo oppure si limitano a stabilire – è il caso dello Statuto provinciale di Taranto e di quello comunale di Molfetta – che il Sindaco o il Presidente della Provincia “nella formazione della Giunta, assicura la presenza di entrambi i sessi” (quindi, affinché la previsione statutaria sia rispettata, in quest’ultimo caso, basterebbe la nomina anche di un solo assessore donna in una Giunta composta per il resto da uomini). L’art. 5 dello Statuto capitolino invece richiede una “presenza equilibrata di uomini e donne” (a dire il vero, non solo in seno alla Giunta, ma anche nelle nomine dei responsabili degli uffici e dei servizi e nell’attribuzione degli incarichi dirigenziali), introducendo delle vere e proprie “quote rosa”, anche se indeterminate (che vuol dire, infatti, “presenza equilibrata”? la metà dei componenti o anche percentuali inferiori?).
Quello delle c. d. “quote rosa” (per la precisione, si dovrebbe parlare di quote di rappresentanza minima dei sessi, anche se, nell’attuale momento storico, per ovvi motivi, sono le donne a trarne più vantaggio) è un tema molto dibattuto, anche perché è di quest’anno la legge che introduce quote analoghe nell’ambito dei consigli di amministrazione delle società quotate in borsa e di quelle non quotate a partecipazione pubblica. La legge in questione prevede che, a partire dal 2012, nei Cda delle predette società il genere meno rappresentato debba ottenere almeno 1/5 degli amministratori eletti, e almeno 1/3 a far data dal 2015. Nell’ottica del legislatore è quindi 1 su 3 il rapporto che, a regime, assicura l’equilibrata presenza dei sessi nei posti di comando delle grandi società. L’inosservanza di tale rapporto ha delle conseguenze pesanti per la vita della società, che in prima battuta sarà colpita, previa diffida da parte della Consob, da sanzioni amministrative pecuniarie da 100000 ad 1 milione di eruo e, in caso di persistente inadempimento, con lo scioglimento del Cda.
Quote rosa, infine, sono previste anche dalla normativa nazionale per l’elezione dei membri del Parlamento europeo. Infatti, l’art. 56 del Codice delle pari opportunità (d. lgs. n. 198/2006) stabilisce che, nella formazione delle liste elettorali, nessuno dei due sessi debba essere rappresentato in misura superiore ai due terzi e che, in caso di trasgressione, l’importo del rimborso-spese elettorale è ridotto, per i partiti e i movimenti che hanno presentato liste, in misura proporzionale al numero dei candidati in più rispetto a quello massimo consentito. Inoltre, le liste “unisessuali” (cioè con candidati tutti appartenenti allo stesso sesso) sono inammissibili.
Attraverso lo strumento in questione si cerca di dare attuazione al principio, ormai espressamente sancito in Costituzione, delle pari opportunità. L’art. 51, comma 1 della Costituzione (come modificato nel 2003), infatti, dopo aver ribadito che tutti i cittadini, dell’uno e dell’altro sesso, possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, precisa che “a tal fine, la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini”.
Pur con le comprensibili ragioni che stanno a monte, che le quote rosa costituiscano mezzo adatto al fine indicato rimane però tutto da dimostrare. Non può sfuggire all’osservatore attento che la fissazione di quote di rappresentanza minima di genere rigidamente predeterminate dal legislatore possa nuocere gravemente all’interesse pubblico, oltre che andar contro al comune buon senso. Dobbiamo infatti rilevare come tutt’oggi esistano settori della vita e lavorativi in cui è netta la prevalenza di un sesso rispetto all’altro. Una netta prevalenza di donne si riscontra ad esempio nel campo dell’insegnamento, soprattutto nella scuola materna e primaria, o in taluni settori dell’artigianato e dell’industria. Eppure, nessuno si sognerebbe in questi ambiti di invocare quote di riserva in favore degli uomini!
La necessità delle quote di rappresentanza minima di genere invece pare emergere solo in quei settori tradizionalmente dominati dagli uomini, che corrispondono a posti di guida e di comando tanto nelle istituzioni quanto nel mondo degli affari. Alla base è difficile non scorgere l’influsso di una ideologia del potere “al femminile”, che auspicherebbe un mondo tutto “rosa”: qualora le donne salissero al potere – ci assicurano le femministe – avremmo un mondo migliore, più pacifico, più pulito, più onesto, e via dicendo. Anche l’economia sarebbe più florida. Tanto per fare un esempio, Anna Maria Tarantola, vicedirettore della Banca d’Italia, non ha dubbi: “Le imprese condotte da donne – dichiara – hanno, a parità di altri fattori, minori rischi di default”.
Questa ideologia del potere al femminile, però, come tutte le ideologie, pecca di eccessivo astrattismo, dimostrandosi miope di fronte alla realtà, la quale mai si lascia ricondurre a ristretti schemi concettuali costruiti ad arte. Quello che non si ha il coraggio di considerare, quando si parla di quote rosa, è che non tutte le donne sono interessate ad avere posti di comando nella società, non tutte sono attratte dalla vita politica o dalla carriera imprenditoriale. Molte preferiscono dedicarsi alla cura dei figli, sia dentro che fuori casa. Non è un caso che l’insegnamento o la stessa catechesi sia un settore predominato dalle donne: questo è un riflesso di quell’istinto materno che è innato in loro. Considerare tutto ciò come il semplice retaggio di una civiltà maschilista e patriarcale significa non rendere affatto giustizia alle donne e alla loro particolare sensibilità, che le porta a realizzarsi più negli affetti che nel potere, a differenza di quanto fanno solitamente gli uomini. Paradossalmente, i sostenitori (o le sostenitrici) del potere “al femminile” non fanno che applicare alle donne, di cui si vantano di interpretare le attese e i bisogni, categorie e modi di pensare tipicamente maschili. Dunque, una sorta di maschilismo “evoluto”, al passo con i tempi, mascherato da femminismo.
Chi scrive non pensa certo che le donne, in quanto tali, siano incapaci di portare un valido contributo anche in politica o nell’economia, come in ogni altro settore professionale e umano. Bisogna solo guardarsi dalle generalizzazioni, perché quello che va bene per alcune donne può non andar bene per altre. Purtroppo quando si perde di vista questo principio le conseguenze, a livello anche sociale, possono essere devastanti.
Le quote rosa offrono un illuminante insegnamento al riguardo. Se per legge si impone che le liste elettorali, così come gli organi elettivi o i consigli di amministrazione, debbano avere una misura minima garantita di rappresentanza femminile, in mancanza di donne idonee ad occupare posti di così alta responsabilità il sistema, lungi dal realizzare un principio di pari opportunità, rischia di creare delle pericolose sacche di disfunzionalità. Un sistema così congegnato, infatti, non solo finisce col risultare iniquo (configurando una discriminazione al rovescio) nella misura in cui la presenza “femminile” negli organi elettivi non rispecchi la proporzione “reale” di donne impegnate in politica o nel mondo degli affari, ma addirittura nuoce all’interesse pubblico, poiché ad un criterio “meritocratico” ne sostituisce uno basato sulla “preferenza” di genere. Il principio di eguaglianza potrà invero dirsi compiutamente realizzato quando nessuno si meraviglierà più che un organo politico o societario sia composto di soli uomini o di sole donne, purché si tratti di persone realmente competenti e preparate al ruolo da ricoprire.
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