mercoledì, settembre 14, 2011
Ilaria Costa è una giovane interprete arabista italiana che, affascinata dalle culture diverse dalla sua, vive da due anni in Egitto. Durante la sua attività di volontariato presso Sakakini, la comunità internazionale che ospita i rifugiati sudanesi, incontra p.Giovanni Esti e inizia una collaborazione con l’organizzazione SAGS (Scuola d’arte p.Giorgio Stefani) dove attualmente lavora come project manager. Il 25 gennaio 2011 vive il suo primo ed unico giorno di protesta in Egitto. Ci racconta le emozioni e le paure di un giorno speciale per il popolo egiziano e lancia un messaggio di speranza alle giovani generazioni italiane: “Ragazzi, il futuro siamo noi!”.

di Chiara Bartoli

Innanzitutto ti ringrazio per la tua disponibilità. Vorrei iniziare chiedendoti quali sono state le ragioni che ti hanno spinta a recarti in Egitto come volontaria delle missioni gestite dai padri camboniani?
L’Egitto è entrato nella mia vita nel 2007, quando partii per un corso trimestrale d’arabo grazie ad una borsa di studio. Conobbi i comboniani, poiché hanno una delle scuole d’arabo per stranieri più famose in Egitto. Dopo la specialistica, per un’arabista è quasi d’obbligo passare un periodo in un paese arabofono. Tuttavia l’idea di ritornare lì mi spaventava. Il Cairo è una realtà difficile, lo era e lo è ancora di più oggi, poiché la povertà è aumentata e con la povertà alcune forme di estremismo si stanno pian piano insinuando nella società. Cercai lavoro in Italia, anche come stagista, ma nel mio settore non trovai nulla! Qualsiasi offerta di lavoro richiedeva giovane età ma lunga esperienza, che grande contraddizione! Dopo un pellegrinaggio ad Assisi, nel tempo d’Avvento, trovai la forza e la grinta di inviare un’e-mail ai missionari comboniani. La ricetta per me era perfetta: Egitto, dove avrei migliorato l’arabo,e volontariato, dove sarei cresciuta nella mia professionalità, nella vita, nell’amare davvero il prossimo, nel capire che significa “servizio” per una società molto più lesa e frammentata della nostra.

Quali sono state le difficoltà maggiori che hai incontrato una volta arrivata in Egitto?
La prima difficoltà è stata di natura linguistica. L’arabo classico è diverso dal dialetto egiziano, che ho dovuto imparare per comunicare con tutti, che sorridevano ironici quando parlavo in classico. È come se un italiano parlasse in latino! Altra grande difficoltà che tuttora mi porto dietro: la mia condizione di donna, soprattutto di donna occidentale. Accanto alle persone rispettose, ai giovani che hanno fatto la rivoluzione e che hanno idee molto aperte, gran parte della popolazione egiziana considera la donna occidentale un alieno. Ora ho imparato ad ignorare commenti molesti, occhiate invadenti e a volte vere e proprie molestie. Devi coprirti, soprattutto nelle zone molto popolari. Con il rispetto per un paese che mi ospita, ho sempre accettato volentieri questo stile di vita. Tuttavia ammiro le giovani donne egiziane che osano bretelline o gonne sotto il ginocchio.

Nel 2010 sei diventata coordinatrice delle attività e dei progetti della cooperativa di Ezbet Shokre: in cosa consiste in particolare il tuo lavoro?

Quando ero a Sakakini , dove facevo la volontaria, seppi di un missionario italiano che cercava un’interprete e traduttrice per il corso di leadership e di empowerment che portava avanti in questo villaggio da un po’ di tempo. Mi parlò della sua idea, quella di fornire a queste giovani donne gli strumenti necessari per avviare una cooperativa che avrebbero gestito loro in autonomia. Quindi ci sarebbero stati corsi di economia ed impresa, inglese e organizzazione aziendale, arte copta. Loro infatti sono cristiane, o meglio copte. Da interprete e traduttrice del materiale didattico per le ragazze sono entrata nel vivo del progetto . Padre Giovanni, preso da tantissime altre attività, mi ha affidato l’impresa: dalla gestione dei contatti all’organizzazione degli eventi, alla stesura dei verbali, alla contabilità, al fund raising, alla realizzazione del sito-web e delle brochures, alle questioni legali. Ho chiesto aiuto, ovviamente, a delle persone egiziane che ora sono entrate appieno nel nostro lavoro e che, essendo artisti, sono i veri protagonisti della nostra scuola d’arte. Purtroppo la rivoluzione ha rallentato i progetti. Noi però non ci siamo scoraggiati. Abbiamo realizzato la prima mostra d’arte copta (3 giugno 2011), a cui hanno partecipato anche le ragazze di Ezbet Shokre, in cui abbiamo riunito gli artisti egiziani che hanno espresso il loro concetto di “Sacro Cuore di Gesù. È un lavoro molto creativo!

Il 25 gennaio 2011 è per l'Egitto una data molto significativa, perchè scoppia la protesta che condurrà il paese alla definitiva cacciata di Mubarak. Puoi descrivere come si è svolta la tua giornata?

Quel giorno stavo andando al lavoro, perché oltre a SAGS insegno part-time in 2 scuole di italiano per egiziani. Non mi sarei mai aspettata la “rivoluzione”. I miei amici egiziani su facebook nei giorni precedenti avevano pubblicato centinaia di links relativi al 25 gennaio, ma sinceramente non ci credevo. Ero a scuola, erano le h18.00 e ambulanze passavano da via Galaa, a pochi metri da Tahrir. Quando finii la lezione venne a prendermi Nabil (un giovane egiziano) da scuola, entusiasta e grintoso. Mi invitò ad andare in quella piazza, il 25 gennaio. Non dimenticherò mai le sue parole: “è un mio dovere scendere in piazza a manifestare. Anche i bambini sono lì, non posso nascondermi!”. Avevo un po’ paura. Di manifestazioni ne ho viste tante e ne ho fatte tante in Italia, da studentessa, ma temevo perché non ero nel mio paese, avevo paura di ritrovarmi coinvolta in qualche scontro. Arrivata lì trovai tanti amici, la piazza era gremita di giovani, c’erano anche tantissime ragazze, velate e non. Molti di loro si portavano fazzoletti al volto perché i gas lacrimogeni lanciati nel pomeriggio dalla polizia durante i tafferugli avevano causato irritazione. Mi invitavano a rimanere con loro, in “sit in” permanente, a dormire lì, in quella piazza. Rifiutai: la piazza era pacifica, visi giovani, ma tutt’intorno cordoni di polizia che avevano chiuso ogni via, che la rendevano claustrofobica. Erano pronti a caricare, infatti quella notte caricarono.

Da quel giorno la tua permanenza in Egitto si fa più difficile. Come hai vissuto gli ultimi giorni di soggiorno?

Dopo il 25 gennaio non sono più tornata a Tahrir. Il regime stava cadendo, la polizia si era ritirata. La postazione di poliziotti vicino casa mia era sparita, sentivo sparare continuamente. Convivevo ormai con quegli spari, abitavo ad un km da Tora, uno dei centri penitenziari più famosi del Cairo, da cui in quei giorni uscivano criminali che seminavano paura. E alla fine fu proprio quel sentimento a prevalere in me: la “paura”, accompagnata da confusione e disorientamento. L’1 febbraio 2011 partii per l’Italia tra le lacrime, lasciandomi alle spalle la mia vita, con il terrore di non rivedere più nessuno, di non sapere quando sarei tornata, apprendendo che amici di amici erano rimasti uccisi negli scontri, temendo che questa carneficina potesse continuare. Con un solo bagaglio a mano e la tristezza nel cuore, presi quell’aereo speciale per l’Italia, dove ci sono rimasta fino al 15 marzo scorso.

Hai un messaggio da dare alle giovani generazioni italiane di cui fai parte, che anche a causa della crisi internazionale che sta investendo l'economia si trovano davanti prospettive lavorative sempre più limitate?

Vorrei poter dire “forza e coraggio!”. La vita è talmente tanto bella che riserva ogni giorno opportunità. Ancora oggi continuo ad inviare CV che non ricevono risposta. So benissimo qual è la sensazione che noi giovani proviamo quando ci mettiamo davanti ad un motore di ricerca-lavoro ed il risultato è nullo. Lo sconforto serve solo a far ammalare la nostra bella esistenza. Ad Assisi scoprii un messaggio che mi ha segnata e continua a segnare quotidianamente la mia esistenza: “Dov’è pazienza ed umiltà, ivi non è ira né turbamento!”. Saper aspettare, lottando per i propri diritti, essendo propositivi e creativi, affidandoci alla Divina Provvidenza e fare quello che ci piace fare. Ho visto nei giovani del Cairo la grinta della rivoluzione. Con la forza della pace i giovani e le donne d’Egitto sono scesi in piazza quel 25 gennaio. Loro mi hanno insegnato cosa significhi “pazienza ed umiltà”. Vorrei che chi ci guida al governo qui in Italia indossasse per un giorno i panni di un giovane precario, madre o padre, studente o operaio fuori-sede, stagista, disoccupato, volontario e dicesse: “Il futuro sei tu!”. Ragazzi, il futuro siamo noi!

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