I destini incrociati di Lea Garofalo, Maria Concetta Cacciola e Kate Omoregbe
Liberainformazione - In Calabria si consumano storie di donne singolari, segno di un tempo carico di sofferenze e di contraddizioni che, non caso, da rosa diventa rosso sangue. L’acido logora, consuma, uccide donne suicidatesi o, forse indotte al suicidio. Donne tradite, lasciate da sole, che si sentono sole, che non hanno sostenuto un carico insostenibile di accuse. Donne capaci, prima del coraggio di spezzare le catene di un’oppressione, della 'ndrangheta e di credere nello Stato e poi di un gesto disperato, autonomo o forse suscitato.
Donne che hanno compiuto la coraggiosa, la scelta di cambiare il proprio destino asfissiante, avvinghiato al malaffare, all’omertà e alla violenza per scegliere la verità, la luce, la libertà di donne e di madri di figli con il preciso intento di creare per gli stessi un avvenire degno di questo nome. Un coraggio che nasce e muore giovane. E’ il caso di Maria Concetta Cacciola, 31 anni di Rosarno nel reggino, cugina della collaboratrice di giustizia Giuseppina Pesce, come anche di Tita Buccafusca, 38 anni di Vibo Valentia. L’acido ha corroso anche il corpo di Lea Garofalo, crotonese ma uccisa nel milanese. Tutte donne che hanno optato per la giustizia e per la difesa dei figli piuttosto che per l’appartenenza alla famiglia di 'ndrangheta.
Un filo drammatico lega queste storie di ribellione alla 'ndrangheta, necessaria, essenziale e imprescindibile, a quella che ha come scenario ancora una volta la Calabria. La storia di ribellione di una donna, anche lei giovane, di 34 anni proveniente dalla Nigeria che con il suo no nel suo paese ha spezzato le catene di una tradizione iniqua e fortemente lesiva dei suoi diritti. Ancora una volta l’acido, questa volta non ingerito o utilizzato per sciogliere il corpo e uccidere, ma per sfregiare il volto come segno disobbedienza alle leggi islamiche. Vittime dell’acido muriatico le donne straniere nel loro paese come in Italia dove, pur costituendo reato, questo gesto aberrante è divenuto un segno degenere di tradizioni disumane e di brutale forma di giustizia privata impostasi nella quotidianità e nella cronaca anche del nostro paese.
Ma adesso la storia non è quella di Hasna, la giovane marocchina diciannovenne che a Torino lo scorso anno fu sfregiata da un connazionale che aveva respinto e che di recente è stato condannato a sei anni di reclusione. Quella di oggi è la storia di Kate Omoregde che rischia di essere sfregiata, sfigurata e uccisa a pietrate per non avere rinunciato alla sua fede Cristiana in favore di quella Musulmana in Nigeria e per avere detto no ad un matrimonio combinato in una società integralista in cui la sottomissione imposta dal padre- marito-padrone rappresenta l’unica libertà femminile concessa. Si tratta di una donna di 34 anni, nigeriana e in Italia da diversi anni, giunta dopo un viaggio di due giorni passando dalla Spagna, attualmente detenuta presso il carcere di Castrovillari nel cosentino che rischia di essere rimpatriata verso un paese dove sostanzialmente rischia la vita. Ciò in palese violazione delle convenzioni internazionali in materia di diritto di asilo.
Una condanna a quattro anni di reclusione per possesso di sostanze stupefacenti rinvenute nella sua abitazione dove conviveva con delle amiche; quattro anni di cui dieci mesi trascorsi a Roma nel carcere di Rebibbia e poi il trasferimento in Calabria nel carcere di Castrovillari da cui potrebbe uscire tra qualche giorno per uno sconto di sei mesi per buona condotta.
Kate si è sempre proclamata innocente, ma adesso al momento del suo rilascio il decreto di espulsione pendente su di lei aprirà una nuova via della disperazione: quella del rimpatrio in Nigeria, il paese più popoloso dell’Africa con 250 gruppi etnici dove la violenza sulle donne è diffusa e una condanna attende di essere eseguita nei suoi confronti. Su Kate, infatti, incombe la minaccia dell’acido e delle pietre per una libertà che in Nigeria è proibita, quella di autodeterminarsi.
Da qui l’appello di molte testate giornalistiche locali e nazionali italiane, del leader del movimento per i Diritti Civili Franco Corbelli, la petizione web e il tam tam mediatico generatosi per la sua permanenza in Italia, affinchè i suoi diritti siano tutelati, la sua vita salvata dalla brutalità di una legge accecata dal fondamentalismo e, dunque, ingiusta.
La speranza di Kate di rimanere in Italia in realtà è una battaglia di civiltà di ciascuno, come lo sarebbe stata quella per salvare Tita, Maria Concetta e Lea. Ma per queste donne l’abbiamo persa, forse ancora prima di combatterla.
* www.reggiotv.it
Liberainformazione - In Calabria si consumano storie di donne singolari, segno di un tempo carico di sofferenze e di contraddizioni che, non caso, da rosa diventa rosso sangue. L’acido logora, consuma, uccide donne suicidatesi o, forse indotte al suicidio. Donne tradite, lasciate da sole, che si sentono sole, che non hanno sostenuto un carico insostenibile di accuse. Donne capaci, prima del coraggio di spezzare le catene di un’oppressione, della 'ndrangheta e di credere nello Stato e poi di un gesto disperato, autonomo o forse suscitato.
Donne che hanno compiuto la coraggiosa, la scelta di cambiare il proprio destino asfissiante, avvinghiato al malaffare, all’omertà e alla violenza per scegliere la verità, la luce, la libertà di donne e di madri di figli con il preciso intento di creare per gli stessi un avvenire degno di questo nome. Un coraggio che nasce e muore giovane. E’ il caso di Maria Concetta Cacciola, 31 anni di Rosarno nel reggino, cugina della collaboratrice di giustizia Giuseppina Pesce, come anche di Tita Buccafusca, 38 anni di Vibo Valentia. L’acido ha corroso anche il corpo di Lea Garofalo, crotonese ma uccisa nel milanese. Tutte donne che hanno optato per la giustizia e per la difesa dei figli piuttosto che per l’appartenenza alla famiglia di 'ndrangheta.
Un filo drammatico lega queste storie di ribellione alla 'ndrangheta, necessaria, essenziale e imprescindibile, a quella che ha come scenario ancora una volta la Calabria. La storia di ribellione di una donna, anche lei giovane, di 34 anni proveniente dalla Nigeria che con il suo no nel suo paese ha spezzato le catene di una tradizione iniqua e fortemente lesiva dei suoi diritti. Ancora una volta l’acido, questa volta non ingerito o utilizzato per sciogliere il corpo e uccidere, ma per sfregiare il volto come segno disobbedienza alle leggi islamiche. Vittime dell’acido muriatico le donne straniere nel loro paese come in Italia dove, pur costituendo reato, questo gesto aberrante è divenuto un segno degenere di tradizioni disumane e di brutale forma di giustizia privata impostasi nella quotidianità e nella cronaca anche del nostro paese.
Ma adesso la storia non è quella di Hasna, la giovane marocchina diciannovenne che a Torino lo scorso anno fu sfregiata da un connazionale che aveva respinto e che di recente è stato condannato a sei anni di reclusione. Quella di oggi è la storia di Kate Omoregde che rischia di essere sfregiata, sfigurata e uccisa a pietrate per non avere rinunciato alla sua fede Cristiana in favore di quella Musulmana in Nigeria e per avere detto no ad un matrimonio combinato in una società integralista in cui la sottomissione imposta dal padre- marito-padrone rappresenta l’unica libertà femminile concessa. Si tratta di una donna di 34 anni, nigeriana e in Italia da diversi anni, giunta dopo un viaggio di due giorni passando dalla Spagna, attualmente detenuta presso il carcere di Castrovillari nel cosentino che rischia di essere rimpatriata verso un paese dove sostanzialmente rischia la vita. Ciò in palese violazione delle convenzioni internazionali in materia di diritto di asilo.
Una condanna a quattro anni di reclusione per possesso di sostanze stupefacenti rinvenute nella sua abitazione dove conviveva con delle amiche; quattro anni di cui dieci mesi trascorsi a Roma nel carcere di Rebibbia e poi il trasferimento in Calabria nel carcere di Castrovillari da cui potrebbe uscire tra qualche giorno per uno sconto di sei mesi per buona condotta.
Kate si è sempre proclamata innocente, ma adesso al momento del suo rilascio il decreto di espulsione pendente su di lei aprirà una nuova via della disperazione: quella del rimpatrio in Nigeria, il paese più popoloso dell’Africa con 250 gruppi etnici dove la violenza sulle donne è diffusa e una condanna attende di essere eseguita nei suoi confronti. Su Kate, infatti, incombe la minaccia dell’acido e delle pietre per una libertà che in Nigeria è proibita, quella di autodeterminarsi.
Da qui l’appello di molte testate giornalistiche locali e nazionali italiane, del leader del movimento per i Diritti Civili Franco Corbelli, la petizione web e il tam tam mediatico generatosi per la sua permanenza in Italia, affinchè i suoi diritti siano tutelati, la sua vita salvata dalla brutalità di una legge accecata dal fondamentalismo e, dunque, ingiusta.
La speranza di Kate di rimanere in Italia in realtà è una battaglia di civiltà di ciascuno, come lo sarebbe stata quella per salvare Tita, Maria Concetta e Lea. Ma per queste donne l’abbiamo persa, forse ancora prima di combatterla.
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