martedì, ottobre 11, 2011
«Venticinque anni fa, in questo mese, mi sono seduto di fronte a Ronald Reagan a Reykjavik, in Islanda, per negoziare un accordo che avrebbe ridotto, e infine potuto eliminarlo entro il 2000, lo spaventoso arsenale di armi nucleari detenute da Stati Uniti e Unione Sovietica.

GreenReport - Pur in tutte le nostre differenze, Reagan ed io condividevamo la forte convinzione che i paesi civili non avrebbero dovuto fare di queste armi barbariche il fulcro della loro sicurezza. Anche se non siamo riusciti a raggiungere le nostre più alte aspirazioni a Reykjavik, il summit è stato comunque, secondo le parole della mia ex-controparte, "un punto di svolta nella ricerca di un mondo più saldo e sicuro"».

Con queste parole, pubblicate oggi sulle pagine di Project Syndacate, l'ultimo segretario generale del Partito Comunista dell'Unione Sovietica accende la vigilia di quell'11 ottobre 1961 che ha «spianato la strada per due trattati storici. Nel 1987, l'Intermediate-Range Nuclear Forces (INF) Treaty ha distrutto i temuti missili quick-stike che minacciavano la pace in Europa. E, nel 1991, il primo Strategic Arms Reduction Treaty (START I) ha tagliato i rigonfi arsenali nucleari americani e sovietici dell'80% nel corso di un decennio╗. Importanti mattoni sulla strada per un'inversione di marcia rispetto all'escalation degli armamenti nucleari che ha caratterizzato la Guerra fredda.

«Il deterrente nucleare è sempre stato un garante della pace rigido e fragile. Omettendo di proporre un piano convincente per il disarmo nucleare, gli Stati Uniti, la Russia e le potenze nucleari rimanenti stanno promuovendo attraverso l'inazione un futuro in cui le armi nucleari saranno inevitabilmente utilizzate. Una catastrofe che deve essere prevenuta - sottolinea Mikhail Gorbačëv».

Associare l'immagine di una testata atomica con quella di una catastrofe nucleare - che si tradurrebbe in una sconfitta per l'umanità, senza vincitori - risulta ormai sufficientemente semplice ai più. Lo stesso non sembra accadere con le più placide centrali nucleari, apparentemente molto lontane dallo sconcerto di un fungo atomico che si innalza nel cielo.

È recentissima la notizia di un documento scritto da un esperto iraniano (e poi finito nelle mani del Times, dove ammettono di non poterne verificare la veridicità, ma di non aver motivi per dubitare della fonte, definita "affidabile"), che ammette come la centrale iraniana di Bushehr sia altamente insicura, e ‹‹vi è "un'alta probabilità" che Bushehr sia la prossima Cernobyl o Fukushima››; niente di nuovo sotto il sole per i lettori di greenreport, ma rimane sconcertante la mancanza di reazioni concrete e decise da parte delle autorità politiche internazionali di fronte a notizie come questa.

Oltre al problema dei rischi intrinseci presenti nella produzione di energia tramite centrali atomiche, il quesito - al momento irrisolvibile - che ci viene implicitamente posto dalla presenza delle scorie nucleari ci pone davanti l'evidenza che il nucleare civile e quello militare rappresentino le due facce di un'unica medaglia. Un legame tanto chiaro quanto preoccupante. Se ancora nessuno è riuscito a trovare un sito per stoccare al sicuro le scorie, le più svariate cellule del terrorismo internazionale sarebbero infatti ben liete di sobbarcarsi quest'onere, usandole nella costruzione di ordigni nucleari sporchi con i quali terrorizzare i civili tenendo dalla parte del manico una minaccia agghiacciante.

Il dialogo internazionale per il disarmo nucleare non può dunque prescindere da quest'ottica, nella quale si può implicitamente inserire l'avviso di Gorbačëv, il quale continua la sua dissertazione asserendo che ‹‹il nostro mondo è ancora troppo militarizzato. Nel clima economico attuale, le armi nucleari sono diventate disgustose fosse di denaro. Se, come sembra probabile, le difficoltà economiche continueranno, gli Stati Uniti, la Russia e le altre potenze nucleari devono cogliere il momento per lanciare una multilaterale riduzione delle armi attraverso canali nuovi o già esistenti, come la Conferenza delle Nazioni Unite sul disarmo. Queste deliberazioni produrrebbero maggiore sicurezza, impiegando meno denaro››.

Secondo l'ex-capo di stato sovietico, però, «ciò che sembra mancare oggi sono leader con l'audacia e la visione necessarie per costruire la fiducia che occorre per reintrodurre il disarmo nucleare come fulcro di un ordine mondiale pacifico. I vincoli economici e il disastro di Chernobyl aiutarono a spronarci all'azione. Perché la Grande Recessione e il disastroso meltdown di Fukushima Daiichi in Giappone non hanno suscitato una risposta simile, adesso?».

È infatti eticamente ed economicamente (ed ecologicamente) inaccettabile che, specialmente di fronte ad una crisi economica di proporzioni storiche e planetarie come quella che stiamo vivendo, al nucleare sia ancora conferita una qualche ragione di esistere. Ma, come nota ancora Gorbačëv nel suo scritto, l'accordo di ‹‹Reykjavik ha dimostrato che l'audacia viene premiata. Le condizioni erano tutt'altro che favorevoli per un accordo sul disarmo nel 1986››.

E, se anche in quest'ambito quel che sembra sempre più necessario per raggiungere risultati definitivi è restituire ad una politica condivisa e lungimirante il timone che le è sfuggito di mano, eventi recenti come il risultato referendario italiano contro il nucleare civile, o la scelta di Paesi come la Germania di uscire definitivamente dall'atomo per gli approvvigionamenti energetici, portano la concreta speranza che anche il tramonto del nucleare militare non sia affatto un miraggio, ma un concreto futuro.

Luca Aterini

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