Sovraffollamento, suicidi, violenze e carenze igienico-sanitarie affliggono le carceri italiane
di Paola Bisconti
Quando la pena deteriora l’animo del recluso anziché rinvigorirlo, vuol dire che il sistema giudiziario non funziona. Il sovraffollamento nelle carceri italiane è la conseguenza di una lunga serie di cause, non solo quelle direttamente legate ai tribunali e alle pene ma anche quelle attinenti ad una cattiva gestione dell’intero organismo penitenziario. I dati dichiarati il 28 ottobre nel rapporto “Prigioni malate” dall’Associazione Antigone illustrano una situazione difficile e drammatica: 67.428 detenuti in 45.817 posti. Sono numeri, ma in questo caso i detenuti sono persone. Una mala gestione di un apparato della società che produce effetti gravissimi su chi, avendo sbagliato, ha bisogno di scontare una pena utile: studiare, lavorare, stare vicino ai propri cari può essere una concreta alternativa ad un ozio forzato che non produce alcun risultato.
La legge Gozzini del 1975 rivoluzionò il sistema penitenziario mettendo in atto una serie di provvedimenti a favore del detenuto garantendogli, dal primo giorno di esecuzione della pena, la possibilità di lavorare all’esterno. Grazie all’adempimento di tale decreto, lo stato italiano fu pioniere di un’avanguardia penitenziaria che nel corso degli anni ha perso però validità e concretezza. Se il codice penale modernizzasse alcuni punti salienti come le leggi sulle droghe e sull’immigrazione, rivedesse il meccanismo classista della recidiva e riducesse lo spazio di applicazione della custodia cautelare, allora tutti i detenuti ne trarrebbero un notevole vantaggio: rispettare i loro diritti e aiutarli a comprendere gli errori commessi “lavorando” sulle loro coscienze gioverebbe al beneficio di un’intera società.
Attualmente tutto ciò sembra un ideale con il retrogusto di un’utopia che non consola. La scarsità di misure detentive alternative al carcere ha provocato danni irrecuperabili: 154 morti nelle galere dall’inizio del 2011, di cui 53 per suicidio. Il gesto estremo è senza ombra di dubbio una sconfitta per l’intero paese, e d’altronde come possono 8 esseri umani vivere in una cella destinata a 4 persone? Si tratta di stanze collocate a livello seminterrato, come nella fortezza di Favignana, definite da Alexander Dumas delle vere e proprie tombe, prive di qualsiasi suppellettile ad eccezione di una branda senza materasso. Il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha ribadito come la questione sia di prepotente urgenza sul piano costituzionale e civile. Tuttavia la risposta al problema è stata pressocchè nulla. C’è stato silenzio persino dinanzi allo sciopero della fame, effettuato durante i mesi estivi, da numerosi detenuti, insieme alle proteste di alcuni direttori: nonostante la scelta di contestare con un atto non violento, i risultati ottenuti sono stati inesistenti.
Si intravedono spiragli di luce se consideriamo la lodevole scelta della Puglia e della Toscana che nei consigli regionali hanno nominato dei garanti per monitorare le condizioni di vita nelle carceri. Si tratta di una soluzione regionale, sostitutiva a una legge nazionale, che garantisce innanzitutto la tutela al diritto alla salute, dato che la medicina penitenziaria spetta alle regioni e l’avvio di procedimenti di indagine nei confronti delle Asl comporta l’attuazione di misure preventive rispetto alle situazioni igienico-sanitarie, all’abilità di una cella, alla prevenzione ai suicidi. Duro lavoro spetta, quindi, all’avvocato Piero Rossi, il garante nominato dalla giunta Vendola, dato che la Puglia, stando ai dati Eurostat, risulta la regione più sovraffollata d’Italia. Per la Toscana il compito di vigilare è stato affidato a Sandro Margara, anche lui reduce di significativi incarichi come la presidenza della fondazione Michelucci, un’associazione fiorentina prodiga nelle ricerche nel campo dell’urbanistica e dell’architettura, con particolare riferimento ai problemi delle strutture sociali come quelle penitenziarie (uno dei problemi più immediati da risolvere).
Non è regalando nuovi appalti alle imprese edilizie che si risolve la questione del sovraffollamento. Per evitare che le galere diventino nuovi “ghetti urbani“, come ha dichiarato Patrizio Gonnella, il presidente di Antigone, non occorre svuotare le Casse delle Ammende per creare carceri fantasma. Sottrarre denaro dal tesoretto messo da parte grazie ai soldi provenienti dalle ammende, dalle sanzioni pecuniarie, dai proventi dei manufatti realizzati dai detenuti, dai versamenti cauzionali, non è stata sicuramente la soluzione migliore: il risultato è stato quello di aver costruito, negli ultimi 20 anni, istituti arredati e inutilizzati. Fatto ancor più grave è la dichiarazione dell’amministrazione penitenziaria che sostiene di non avere i fondi per pagare i contributi alle imprese e cooperative che hanno prestato servizio presso i vari complessi carcerari. Ma come si spiega la spesa di 600 milioni di euro investiti nell’edilizia?
Sorprende constatare come le ingiustizie più clamorose avvengono lì dove la giustizia dovrebbe essere meglio amministrata e difesa, nella carceri, nelle caserme, nei commissariati, dove invece si svolgono spesso quegli episodi di violenza compiuta da chi dovrebbe aver cura dei custoditi. Federico Aldrovandi, Stefano Cucchi, Giuseppe Uva, Carlo Saturno sono alcune delle vittime di tortura, un crimine che ad oggi non è ancora sanzionato dallo stato italiano.
Lo scandalo aumenta con la creazione di luoghi di internamento come i CIE, definiti da alcuni addirittura una sorta di Guantanamo all’italiana: uomini e donne vengono ammassati senza riconoscerne diritti e umanità in luoghi dove regna il degrado e dove è vietato l’ingresso a media e organizzazioni umanitarie. Sarebbe il caso di ricorrere all’applicazione dell’articolo 27 della Costituzione, che sembra invece dimenticato: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”.
di Paola Bisconti
Quando la pena deteriora l’animo del recluso anziché rinvigorirlo, vuol dire che il sistema giudiziario non funziona. Il sovraffollamento nelle carceri italiane è la conseguenza di una lunga serie di cause, non solo quelle direttamente legate ai tribunali e alle pene ma anche quelle attinenti ad una cattiva gestione dell’intero organismo penitenziario. I dati dichiarati il 28 ottobre nel rapporto “Prigioni malate” dall’Associazione Antigone illustrano una situazione difficile e drammatica: 67.428 detenuti in 45.817 posti. Sono numeri, ma in questo caso i detenuti sono persone. Una mala gestione di un apparato della società che produce effetti gravissimi su chi, avendo sbagliato, ha bisogno di scontare una pena utile: studiare, lavorare, stare vicino ai propri cari può essere una concreta alternativa ad un ozio forzato che non produce alcun risultato.
La legge Gozzini del 1975 rivoluzionò il sistema penitenziario mettendo in atto una serie di provvedimenti a favore del detenuto garantendogli, dal primo giorno di esecuzione della pena, la possibilità di lavorare all’esterno. Grazie all’adempimento di tale decreto, lo stato italiano fu pioniere di un’avanguardia penitenziaria che nel corso degli anni ha perso però validità e concretezza. Se il codice penale modernizzasse alcuni punti salienti come le leggi sulle droghe e sull’immigrazione, rivedesse il meccanismo classista della recidiva e riducesse lo spazio di applicazione della custodia cautelare, allora tutti i detenuti ne trarrebbero un notevole vantaggio: rispettare i loro diritti e aiutarli a comprendere gli errori commessi “lavorando” sulle loro coscienze gioverebbe al beneficio di un’intera società.
Attualmente tutto ciò sembra un ideale con il retrogusto di un’utopia che non consola. La scarsità di misure detentive alternative al carcere ha provocato danni irrecuperabili: 154 morti nelle galere dall’inizio del 2011, di cui 53 per suicidio. Il gesto estremo è senza ombra di dubbio una sconfitta per l’intero paese, e d’altronde come possono 8 esseri umani vivere in una cella destinata a 4 persone? Si tratta di stanze collocate a livello seminterrato, come nella fortezza di Favignana, definite da Alexander Dumas delle vere e proprie tombe, prive di qualsiasi suppellettile ad eccezione di una branda senza materasso. Il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha ribadito come la questione sia di prepotente urgenza sul piano costituzionale e civile. Tuttavia la risposta al problema è stata pressocchè nulla. C’è stato silenzio persino dinanzi allo sciopero della fame, effettuato durante i mesi estivi, da numerosi detenuti, insieme alle proteste di alcuni direttori: nonostante la scelta di contestare con un atto non violento, i risultati ottenuti sono stati inesistenti.
Si intravedono spiragli di luce se consideriamo la lodevole scelta della Puglia e della Toscana che nei consigli regionali hanno nominato dei garanti per monitorare le condizioni di vita nelle carceri. Si tratta di una soluzione regionale, sostitutiva a una legge nazionale, che garantisce innanzitutto la tutela al diritto alla salute, dato che la medicina penitenziaria spetta alle regioni e l’avvio di procedimenti di indagine nei confronti delle Asl comporta l’attuazione di misure preventive rispetto alle situazioni igienico-sanitarie, all’abilità di una cella, alla prevenzione ai suicidi. Duro lavoro spetta, quindi, all’avvocato Piero Rossi, il garante nominato dalla giunta Vendola, dato che la Puglia, stando ai dati Eurostat, risulta la regione più sovraffollata d’Italia. Per la Toscana il compito di vigilare è stato affidato a Sandro Margara, anche lui reduce di significativi incarichi come la presidenza della fondazione Michelucci, un’associazione fiorentina prodiga nelle ricerche nel campo dell’urbanistica e dell’architettura, con particolare riferimento ai problemi delle strutture sociali come quelle penitenziarie (uno dei problemi più immediati da risolvere).
Non è regalando nuovi appalti alle imprese edilizie che si risolve la questione del sovraffollamento. Per evitare che le galere diventino nuovi “ghetti urbani“, come ha dichiarato Patrizio Gonnella, il presidente di Antigone, non occorre svuotare le Casse delle Ammende per creare carceri fantasma. Sottrarre denaro dal tesoretto messo da parte grazie ai soldi provenienti dalle ammende, dalle sanzioni pecuniarie, dai proventi dei manufatti realizzati dai detenuti, dai versamenti cauzionali, non è stata sicuramente la soluzione migliore: il risultato è stato quello di aver costruito, negli ultimi 20 anni, istituti arredati e inutilizzati. Fatto ancor più grave è la dichiarazione dell’amministrazione penitenziaria che sostiene di non avere i fondi per pagare i contributi alle imprese e cooperative che hanno prestato servizio presso i vari complessi carcerari. Ma come si spiega la spesa di 600 milioni di euro investiti nell’edilizia?
Sorprende constatare come le ingiustizie più clamorose avvengono lì dove la giustizia dovrebbe essere meglio amministrata e difesa, nella carceri, nelle caserme, nei commissariati, dove invece si svolgono spesso quegli episodi di violenza compiuta da chi dovrebbe aver cura dei custoditi. Federico Aldrovandi, Stefano Cucchi, Giuseppe Uva, Carlo Saturno sono alcune delle vittime di tortura, un crimine che ad oggi non è ancora sanzionato dallo stato italiano.
Lo scandalo aumenta con la creazione di luoghi di internamento come i CIE, definiti da alcuni addirittura una sorta di Guantanamo all’italiana: uomini e donne vengono ammassati senza riconoscerne diritti e umanità in luoghi dove regna il degrado e dove è vietato l’ingresso a media e organizzazioni umanitarie. Sarebbe il caso di ricorrere all’applicazione dell’articolo 27 della Costituzione, che sembra invece dimenticato: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”.
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