domenica, novembre 27, 2011
Bartolo Salone ci parla del libro di Cristina Siccardi edito dalle Paoline

San Giuseppe Cafasso (1811-1860), insieme al santo Curato d’Ars, è stato di recente riproposto da Benedetto XVI a modello dei sacerdoti diocesani. Nella sua breve ma intensa esistenza testimoniò con grandezza d’animo e immensa generosità il suo essere sacerdote negli anni difficili del Risorgimento italiano, in una Torino segnata dall’affermarsi di uomini e teorie politiche impregnati da virulento anticlericalismo, radicato odio verso la Chiesa e profondo disprezzo per la religione cattolica. La vicenda umana e spirituale di don Giuseppe Cafasso in quegli anni così duri per la Chiesa di Cristo ci è raccontata con profondità storiografica, attenzione alle fonti e semplicità di linguaggio da Cristina Siccardi, autrice di diverse biografie di santi e di uomini di fede, nel suo ultimo libro dal titolo “Giuseppe Cafasso. Un santo del Risorgimento”, edito dalle Paoline.

Il ministero sacerdotale di don Cafasso si svolse prevalentemente nell’arco di trenta chilometri, lo spazio che separava il famoso Convitto ecclesiastico di Torino, di cui divenne rettore nel 1848, dalle carceri regie, cui si recava tre giorni alla settimana per l’assistenza spirituale ai carcerati e ai condannati a morte. Radicata fu in lui la consapevolezza dell’identità e della particolare dignità del ministero sacerdotale. Don Cafasso non è il prete dei dubbi, delle crisi interiori, dei compromessi: la sua fu una vocazione solida, robusta, chiara fin dagli anni della fanciullezza. Sacerdote volle essere e sacerdote fu, con convinzione e fermezza, per tutta la sua esistenza. Un’esistenza alquanto “lineare”, monotona se valutata secondo le categorie mondane, ma, al di là delle apparenze, destinata a segnare profondamente gli eventi della Torino del tempo.
Il suo impegno si concentrò lungo quattro fronti: la formazione umana e spirituale dei novelli sacerdoti, che in gran numero accorrevano al suo Convitto per approfondire la formazione teologica e per far esperienza di fraternità sacerdotale (alla scuola di don Cafasso si formarono parecchi santi sacerdoti del Piemonte, fra i quali lo stesso don Bosco, che ne scrisse una pregevole memoria); l’amministrazione del sacramento della confessione (a lui accorrevano, per farsi confessare, uomini e donne di ogni estrazione sociale, nobili e popolani, che egli riceveva in chiesa o nella sua camera, fino a notte tarda, se necessario); il ministero della predicazione (don Cafasso aveva cura di preparare con studio e diligenza le sue omelie, mai confidando nell’improvvisazione, e prendendo come parametro di riferimento per la qualità delle stesse la propria mamma: “Una buona omelia – sosteneva – è quella che anche mia madre riuscirebbe a comprendere”); infine, l’assistenza spirituale dei carcerati, per i quali si prodigò con grande amore.

Le carceri, all’epoca, erano degli autentici tuguri, con condizioni igienico-sanitarie precarie e trattamento dei detenuti ai limiti del disumano. Un’umanità incattivita fu quella che don Giuseppe si trovò dinnanzi: violenti, bestemmiatori, disadattati sociali con tendenze omicide. Più volte lo stesso santo fu oggetto di aggressioni fisiche e verbali e talvolta, addirittura, di attentati da parte dei detenuti. Il coraggio e la perseveranza che lo caratterizzavano gli consentirono, tuttavia, di perseverare nella sua missione e di conquistarsi pian piano la fiducia dei detenuti, suscitando fra gli stessi numerose conversioni. Parecchie furono le conversioni che il Santo riuscì a “strappare” in punto di morte da quelli che con affetto chiamava “i miei santi impiccati” e ai quali assicurava, come cosa certa, il Paradiso.

Per sua scelta decise di non scendere mai in politica; anzi, raccomandava ai “suoi” sacerdoti, pur nella gravità del momento, di non lasciarsi coinvolgere nel turbine delle passioni politiche, che avrebbe potuto portarli lontani dalla fedeltà alla vocazione ricevuta. Tuttavia era sempre informato di tutto quel che accadeva, al punto da venire a conoscenza e denunciare prontamente l’attentato che un gruppo di giovani mazziniani aveva in mente di realizzare l’8 dicembre 1848 ai danni di Pio IX, in quel tempo in esilio a Gaeta, riuscendo così a salvare la vita del Papa.

Benché avesse espresso in vita il desiderio che non si parlasse più di lui dopo la sua morte, il ricordo di San Giuseppe Cafasso perdura a distanza di più di un secolo e mezzo ed è per tutti noi, in particolare per quanti nella Chiesa servono Cristo nel ministero sacerdotale, monito a vivere con fervore ed eroismo la vocazione ricevuta. Per un sacerdote, infatti, essere anche solo eguagliato da un laico in fatto di virtù è una profonda vergogna: parola di Giuseppe Cafasso!

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