Di fronte alla crisi, riemerge la tentazione di creare un'Europa "centrale" e una "marginale": il contrario della ragion d'essere dell'Unione
Città Nuova - Ecco che spuntano le nuove ipotesi di riforma dei trattati europei nel pieno della crisi dell’eurozona. La prospettiva di una “unione fiscale”, ventilata dalla cancelliera Merkel e condivisa dal premier Monti (accolta con molti “distinguo” da Sarkozy), non è comunque una misura emergenziale, ma un progetto complicato di medio periodo. Quel che è certo è che vengono oggi al pettine i nodi dell’euro, una moneta senza Stato (o meglio, con “troppi” Stati, nel senso di politiche economiche diverse) e soprattutto senza una guida politica. In effetti, non dobbiamo dimenticare che a quasi venti anni dal Trattato di Maastricht, l’euro rimane un progetto incompiuto, e perciò lontano da quella visione integrativa che aveva animato l’era di Jacques Delors. La moneta unica rappresentava una componente di un disegno complessivo, quasi federale, al quale i governi europei hanno sostanzialmente rinunciato. Ci troviamo dunque a fare i conti con uno strumento di sovranità condivisa, come l’euro, mentre un po’ tutti in Europa hanno ricominciato e credere nella grande illusione della sovranità nazionale.
Se dovessimo riassumere le ragioni della perdita di credibilità dell’eurozona, potremmo identificarne la causa principale proprio nel rischio di frammentazione nazionale delle politiche europee. Il paradosso è che proprio quella che è ormai ritenuta un’utopia, e cioè una politica economica unica almeno per l’area euro, rappresenterebbe l’unica misura realistica per salvare non solo la moneta unica, ma forse la stessa costruzione europea. Ma c’è anche un’altra questione che emerge in questi mesi turbolenti: la tentazione, cioè, di creare un’Europa “centrale” e un’Europa “marginale”. Non solo in termini geografici (basti pensare che gli Stati più in crisi sono anche quelli “periferici”) ma anche come processi decisionali. L’impressione è che le questioni più importanti non solo vengono trattate solo da pochi Paesi che contano, ma vengono anche decise al di fuori delle istituzioni europee propriamente dette. Una deriva da evitare: l’ultima cosa di cui abbiamo bisogno è un’Europa diseguale, asimmetrica, polarizzata, cioè il contrario della sua ragion d’essere politica e istituzionale.
Città Nuova - Ecco che spuntano le nuove ipotesi di riforma dei trattati europei nel pieno della crisi dell’eurozona. La prospettiva di una “unione fiscale”, ventilata dalla cancelliera Merkel e condivisa dal premier Monti (accolta con molti “distinguo” da Sarkozy), non è comunque una misura emergenziale, ma un progetto complicato di medio periodo. Quel che è certo è che vengono oggi al pettine i nodi dell’euro, una moneta senza Stato (o meglio, con “troppi” Stati, nel senso di politiche economiche diverse) e soprattutto senza una guida politica. In effetti, non dobbiamo dimenticare che a quasi venti anni dal Trattato di Maastricht, l’euro rimane un progetto incompiuto, e perciò lontano da quella visione integrativa che aveva animato l’era di Jacques Delors. La moneta unica rappresentava una componente di un disegno complessivo, quasi federale, al quale i governi europei hanno sostanzialmente rinunciato. Ci troviamo dunque a fare i conti con uno strumento di sovranità condivisa, come l’euro, mentre un po’ tutti in Europa hanno ricominciato e credere nella grande illusione della sovranità nazionale.
Se dovessimo riassumere le ragioni della perdita di credibilità dell’eurozona, potremmo identificarne la causa principale proprio nel rischio di frammentazione nazionale delle politiche europee. Il paradosso è che proprio quella che è ormai ritenuta un’utopia, e cioè una politica economica unica almeno per l’area euro, rappresenterebbe l’unica misura realistica per salvare non solo la moneta unica, ma forse la stessa costruzione europea. Ma c’è anche un’altra questione che emerge in questi mesi turbolenti: la tentazione, cioè, di creare un’Europa “centrale” e un’Europa “marginale”. Non solo in termini geografici (basti pensare che gli Stati più in crisi sono anche quelli “periferici”) ma anche come processi decisionali. L’impressione è che le questioni più importanti non solo vengono trattate solo da pochi Paesi che contano, ma vengono anche decise al di fuori delle istituzioni europee propriamente dette. Una deriva da evitare: l’ultima cosa di cui abbiamo bisogno è un’Europa diseguale, asimmetrica, polarizzata, cioè il contrario della sua ragion d’essere politica e istituzionale.
Pasquale Ferrara
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