venerdì, dicembre 09, 2011
Nel casertano consenso popolare per Michele Zagaria arrestato dopo 16 anni di latitanza

Libe
rainformazione - Non esulta quel poliziotto per l'arresto di Michele Zagaria. Parla senza farsi riprendere in volto dalle telecamere delle tv nazionali a dimostrazione che, altri boss sono pronti a sparare. Lui c'è andato da volontario a Casal di Principe e la camorra l'aveva già conosciuta nel basso Lazio. Quell'area, tra le province di Latina e Caserta , divenuta negli ultimi trent'anni un grande laboratorio dove sperimentare la forza contaminatrice delle mafie.

Quel poliziotto, ripreso a metà dalle telecamere, aveva indagato, quando era in servizio alla squadra mobile di Latina su Michele Zagaria e con gli altri colleghi aveva contribuito a trovare le prove per farlo condannare all'ergastolo con il leader del gruppo laziale dei casalesi Ettore Mendico, accusati rispettivamente degli omicidi di Giovanni Santonicola e Rosario Cunto, entrambi avvenuti nel sud pontino negli anni ‘90.

L'inquadratura della telecamera riprende la scritta Squadra Mobile - Questura di Caserta che spicca sulla pettina blu che il funzionario di polizia indossa con orgoglio ma, nell'ascoltare le grida dei compaesani a sostegno del boss Zagaria e le invettive contro i giornalisti: andate via ... uccidetevi, dichiara - «il lavoro da fare contro la camorra in queste realtà è ancora molto». Già, il commissario che aveva maturato una esperienza investigativa anche a Fondi e Formia, sa che la lotta contro le mafie nel nostro Paese è stata resa possibile solo contro l' ala militare. Sa che dopo la cattura di un boss c'è chi lo rimpiazza . Sa che quando si arriva a trovare le prove per signori come Cosentino, cioè per coloro i quali la magistratura ritiene essere i referenti politici ed economici dei mafiosi con la pistola, c'è sempre una commissione parlamentare per le autorizzazioni a procedere che in nome di un garantismo complice, ne evita l'arresto. Sa che se mai verrà recisa la testa della “piovra” questa continuerà a vivere, a crescere ad infettare e a contaminare risalendo lo “stivale” e da qui il resto d'Europa.

A Casapesenna la maggioranza dei cittadini non commenta e tra questi, molti, troppi, solidarizzano con il boss Zagaria detto “capastorta”. Le mafie fanno bene il loro lavoro: contaminano come un tumore le parti sane della società con cui entrano in contatto. Proprio come a Formia nel Lazio a 66 chilometri da Casapenna, dove i nipoti del boss Antonio Bardellino ed il figlio di Francesco Schiavone estorcevano, secondo l'accura della Dda di Napoli, con la complicità di imprenditori locali e di Cassino, l'attuale presidente della camera di commercio di Latina Vincenzo Zottola che, per timore di ritorsioni, non ha mai denunciato e che per inconsistenza della politica non viene invitato a dimettersi. Come a Fondi, 87 chilometri più a nord dove non pochi cittadini votano i referenti politici laziali dei mafiosi che controllano il mercato ortofrutticolo,uno dei più grandi d'Europa o nel quartiere di Roma Nuova Ostia, 250 km più a nord, dove vivevano da boss Giovanni Galleoni e Francesco Antonini, i due esponenti di rilievo della criminalità romana assassinati e compianti da molti giovani e anziani che li difendono dalle accuse di mafiosità mosse dagli investigatori della Dia romana.

Le mafie generano consenso li dove lo Stato le combatte solo con il lavoro capace della magistratura e della polizia e dove pezzi della politica, dell'economia e della società civile (per dire...) colludono o fanno finta di non vedere. Da Casapesenna, rifugio di “capastorta”, al quartiere romano di Ostia si percorrono in auto 250 chilometri e nel mezzo tante storie di contaminazione criminale e di consenso sociale ai boss.

Tante storie di “quinta mafia” che corriamo il rischio di dover continuare a raccontare.

di Antonio Turri


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