I venti di guerra si sono spenti, ma il paese è lontano dalla normalità
di Patrizio Ricci
Passati più di due mesi dalla fine della guerra contro Gheddafi, il Consiglio nazionale di transizione libico (CNT) fa fatica a far valere la sua autorità. Tripoli e gran parte del territorio sono sotto il controllo dei thuwwar, i ‘rivoluzionari’, riuniti in svariate formazioni armate che hanno combattuto contro Gheddafi con l’aiuto decisivo della Nato e che ora reclamano un ruolo politico nel futuro del paese.
Così, il 3 gennaio Mustafa Abdel Jalil, presidente del CNT, ha denunciato che il paese rischia di scivolare verso la guerra civile se le milizie non consegnano le armi e riconoscono l’autorità del governo ad interim: “Ci troviamo di fronte a violazioni che pongono la Libia in uno scontro militare che non dobbiamo accettare” ed ha ammonito che il rischio è la guerra civile, “se non c'è sicurezza - ha precisato - non ci sarà legge, né sviluppo, né elezioni”. Lo stesso giorno in cui queste parole sono state pronunciate, è avvenuto l’ennesimo scontro nella capitale tra le forze fedeli al CNT e le brigate di Misurata. E il CNT ha mantenuto la promessa: ha rimandato le elezioni a data da destinare e il 10% dei seggi riservato alle donne è sparito.
La situazione di Tripoli ricalca quella del paese: la brigata Zitan ha il controllo dell’aeroporto; la zona della banca centrale e del porto è sotto il controllo delle formazioni armate di Misurata; le brigate di Tripoli tengono il centro della città; mentre il resto della capitale è sotto il comando dei berberi e della brigata Yafran. Gli scontri armati sono frequenti, l’ultimo è avvenuto qualche giorno fa a Gariane, a un'ottantina di chilometri a sud di Tripoli: pesanti combattimenti tra opposte milizie hanno lasciato sul terreno due morti e una quindicina di feriti. Come se ciò non bastasse c’è il problema della presenza di AlQaida, che ha partecipato alla rivolta contro il regime di Gheddafi con alcuni unità combattenti e che ora tenta di ritagliarsi un proprio spazio.
A rendere ancora più complicata la situazione si registra la forte ingerenza del Qatar, che dopo aver fornito un appoggio decisivo al successo dei “ribelli” contro il passato regime ora chiede il conto. Lo fa a modo suo, fornendo armi e denaro a un ristretto gruppo di fondamentalisti islamici e dando loro grande influenza nel processo politico. “Penso che quello che stanno facendo è fondamentalmente sostenere la Fratellanza Musulmana - dice l’ex CNT Vice Primo Ministro Ali Tarhouni - Hanno portato gli armamenti e li hanno dati alla gente”.
Il premier Jalil aveva cercato in tutti i modi di risolvere questa situazione: aveva chiesto una missione internazionale di peacekeeping sotto l'egida delle Nazioni Unite, ma essa appare poco probabile. Aveva proposto di integrare le milizie all'interno dell’esercito e della polizia: ma anche in questo caso, l’iniziativa non ha entusiasmato le milizie, che coltivano maggiori pretese politiche, ed è fallita.
In questo contesto, per rilanciare un nuovo corso nei rapporti con l’Italia, è arrivato il 21 gennaio a Tripoli Il presidente del Consiglio Monti accompagnato dal ministro della Difesa Giampaolo Di Paola e dal ministro degli Esteri Giulio Terzi. La delegazione italiana è stata ricevuta dal governo ad interim di Mustafa Abdel Jalil e dal presidente Abdel Rahim al-Kib. Per suggellare questo riavvicinamento, le due parti hanno concordato e sottoscritto un accordo di cooperazione. L’Italia ha ottenuto il riconoscimento del credito dovuto alle sue imprese e un ristabilimento delle condizioni pre-conflitto. Da parte sua l’Italia ha offerto assistenza logistica per la ricostruzione delle infrastrutture e sostegno tecnico, militare e sanitario: dall’assistenza delle Forze Armate Italiane all’addestramento in Italia di aliquote di 250/300 uomini del nuovo esercito libico, allo sminamento delle più importanti vie di facilitazione, al controllo elettronico delle frontiere, al disarmo delle milizie. Nel campo sanitario si è offerto di accogliere 1.500 feriti libici nei nostri ospedali, mentre nel campo educativo si è rimandato a progetti via via da definire.
Non erano trascorse poche ore dal momento in cui la delegazione italiana era ripartita, quando a Bengasi l’ultima delle continue manifestazioni di protesta è degenerata. Dopo un lungo assedio al quartier generale del CNT, centinaia di persone che protestavano hanno fatto irruzione nell’edificio, devastandolo e saccheggiandolo. Contro di esso è stata gettata una bomba a mano e altri ordigni confezionati artigianalmente e la facciata dell’edificio è stata data alle fiamme. In seguito la folla inferocita ha distrutto l’auto del Capo del Consiglio di Transizione. Lo stesso Jalil, che ha cercato di calmare i dimostranti, è dovuto fuggire insieme con gli altri dirigenti del governo libico, perché la folla ha cercato di aggredirlo.
I dimostranti lamentavano molte cose, ma le principali richieste erano la cacciata dal governo dei funzionari compromessi con il passato regime e un maggior ruolo politico per gli ex- combattenti. In parte hanno ottenuto quanto richiesto: Abdelhafidh Ghoga, vice presidente del CNT, membro del governo di Gheddafi, e repentinamente passato all’ultimo momento con i ribelli, si è dimesso ieri.
Per ora la protesta si è placata, ma difficilmente si accontenterà di operazioni di facciata. Il sito di Al Jazeera riporta il testo di numerose interviste fatte ai dimostranti. Tra esse, risalta in particolare la domanda di uno di essi: “Il CNT ha fallito in tutto, tranne che nel vendere petrolio. Vogliono forse correggere il percorso della rivoluzione?” E’ un bel dubbio, non c'è che dire.
Gli aspetti in gioco nella questione libica restano molti, controversi e non ancora risolti, dalle modalità dell’intervento internazionale che ha anteposto sopra ad ogni altra considerazione gli interessi e le logiche politico-economiche, sino alla situazione attuale, che ripropone (come era prevedibile) un dialogo inter-libico infuocato. E’ evidente che questo scenario è complicato dall’assenza di partiti politici, in un paese il cui popolo non ha mai rappresentato una entità unica: etnie, storie e cultura diverse sono state unite ‘forzatamente’ nel periodo coloniale e successivamente tenute insieme dal regime di Gheddafi col mito della rivoluzione in funzione di emancipazione antioccidentale (il mito della grande Jamaria).
A complicare l’agenda del nuovo governo, il non trascurabile fatto del perdurare di gravi violazioni dei diritti umani, come più volte denunciato da Amnesty International e Human Right Watch. L’amministrazione della giustizia da parte di tribunali istituiti dalle milizie e non dal governo centrale, il trattamento dei prigionieri, gli abusi, sono tutte questioni che non possono essere trascurate, ma la recente accoglienza che il CNT ha riservato al presidente sudanese Omar Al-Bashir, ricercato in tutto il mondo per crimini contro l’umanità, non lascia ben sperare.
E in tutto questo contesto, consideriamo che troppo spesso si dimentica che costruire la pace è più difficile del vincere le guerre: è un concetto così semplice, ma sempre dimenticato, che quasi ci si vergogna a ricordarlo.
di Patrizio Ricci
Passati più di due mesi dalla fine della guerra contro Gheddafi, il Consiglio nazionale di transizione libico (CNT) fa fatica a far valere la sua autorità. Tripoli e gran parte del territorio sono sotto il controllo dei thuwwar, i ‘rivoluzionari’, riuniti in svariate formazioni armate che hanno combattuto contro Gheddafi con l’aiuto decisivo della Nato e che ora reclamano un ruolo politico nel futuro del paese.
Così, il 3 gennaio Mustafa Abdel Jalil, presidente del CNT, ha denunciato che il paese rischia di scivolare verso la guerra civile se le milizie non consegnano le armi e riconoscono l’autorità del governo ad interim: “Ci troviamo di fronte a violazioni che pongono la Libia in uno scontro militare che non dobbiamo accettare” ed ha ammonito che il rischio è la guerra civile, “se non c'è sicurezza - ha precisato - non ci sarà legge, né sviluppo, né elezioni”. Lo stesso giorno in cui queste parole sono state pronunciate, è avvenuto l’ennesimo scontro nella capitale tra le forze fedeli al CNT e le brigate di Misurata. E il CNT ha mantenuto la promessa: ha rimandato le elezioni a data da destinare e il 10% dei seggi riservato alle donne è sparito.
La situazione di Tripoli ricalca quella del paese: la brigata Zitan ha il controllo dell’aeroporto; la zona della banca centrale e del porto è sotto il controllo delle formazioni armate di Misurata; le brigate di Tripoli tengono il centro della città; mentre il resto della capitale è sotto il comando dei berberi e della brigata Yafran. Gli scontri armati sono frequenti, l’ultimo è avvenuto qualche giorno fa a Gariane, a un'ottantina di chilometri a sud di Tripoli: pesanti combattimenti tra opposte milizie hanno lasciato sul terreno due morti e una quindicina di feriti. Come se ciò non bastasse c’è il problema della presenza di AlQaida, che ha partecipato alla rivolta contro il regime di Gheddafi con alcuni unità combattenti e che ora tenta di ritagliarsi un proprio spazio.
A rendere ancora più complicata la situazione si registra la forte ingerenza del Qatar, che dopo aver fornito un appoggio decisivo al successo dei “ribelli” contro il passato regime ora chiede il conto. Lo fa a modo suo, fornendo armi e denaro a un ristretto gruppo di fondamentalisti islamici e dando loro grande influenza nel processo politico. “Penso che quello che stanno facendo è fondamentalmente sostenere la Fratellanza Musulmana - dice l’ex CNT Vice Primo Ministro Ali Tarhouni - Hanno portato gli armamenti e li hanno dati alla gente”.
Il premier Jalil aveva cercato in tutti i modi di risolvere questa situazione: aveva chiesto una missione internazionale di peacekeeping sotto l'egida delle Nazioni Unite, ma essa appare poco probabile. Aveva proposto di integrare le milizie all'interno dell’esercito e della polizia: ma anche in questo caso, l’iniziativa non ha entusiasmato le milizie, che coltivano maggiori pretese politiche, ed è fallita.
In questo contesto, per rilanciare un nuovo corso nei rapporti con l’Italia, è arrivato il 21 gennaio a Tripoli Il presidente del Consiglio Monti accompagnato dal ministro della Difesa Giampaolo Di Paola e dal ministro degli Esteri Giulio Terzi. La delegazione italiana è stata ricevuta dal governo ad interim di Mustafa Abdel Jalil e dal presidente Abdel Rahim al-Kib. Per suggellare questo riavvicinamento, le due parti hanno concordato e sottoscritto un accordo di cooperazione. L’Italia ha ottenuto il riconoscimento del credito dovuto alle sue imprese e un ristabilimento delle condizioni pre-conflitto. Da parte sua l’Italia ha offerto assistenza logistica per la ricostruzione delle infrastrutture e sostegno tecnico, militare e sanitario: dall’assistenza delle Forze Armate Italiane all’addestramento in Italia di aliquote di 250/300 uomini del nuovo esercito libico, allo sminamento delle più importanti vie di facilitazione, al controllo elettronico delle frontiere, al disarmo delle milizie. Nel campo sanitario si è offerto di accogliere 1.500 feriti libici nei nostri ospedali, mentre nel campo educativo si è rimandato a progetti via via da definire.
Non erano trascorse poche ore dal momento in cui la delegazione italiana era ripartita, quando a Bengasi l’ultima delle continue manifestazioni di protesta è degenerata. Dopo un lungo assedio al quartier generale del CNT, centinaia di persone che protestavano hanno fatto irruzione nell’edificio, devastandolo e saccheggiandolo. Contro di esso è stata gettata una bomba a mano e altri ordigni confezionati artigianalmente e la facciata dell’edificio è stata data alle fiamme. In seguito la folla inferocita ha distrutto l’auto del Capo del Consiglio di Transizione. Lo stesso Jalil, che ha cercato di calmare i dimostranti, è dovuto fuggire insieme con gli altri dirigenti del governo libico, perché la folla ha cercato di aggredirlo.
I dimostranti lamentavano molte cose, ma le principali richieste erano la cacciata dal governo dei funzionari compromessi con il passato regime e un maggior ruolo politico per gli ex- combattenti. In parte hanno ottenuto quanto richiesto: Abdelhafidh Ghoga, vice presidente del CNT, membro del governo di Gheddafi, e repentinamente passato all’ultimo momento con i ribelli, si è dimesso ieri.
Per ora la protesta si è placata, ma difficilmente si accontenterà di operazioni di facciata. Il sito di Al Jazeera riporta il testo di numerose interviste fatte ai dimostranti. Tra esse, risalta in particolare la domanda di uno di essi: “Il CNT ha fallito in tutto, tranne che nel vendere petrolio. Vogliono forse correggere il percorso della rivoluzione?” E’ un bel dubbio, non c'è che dire.
Gli aspetti in gioco nella questione libica restano molti, controversi e non ancora risolti, dalle modalità dell’intervento internazionale che ha anteposto sopra ad ogni altra considerazione gli interessi e le logiche politico-economiche, sino alla situazione attuale, che ripropone (come era prevedibile) un dialogo inter-libico infuocato. E’ evidente che questo scenario è complicato dall’assenza di partiti politici, in un paese il cui popolo non ha mai rappresentato una entità unica: etnie, storie e cultura diverse sono state unite ‘forzatamente’ nel periodo coloniale e successivamente tenute insieme dal regime di Gheddafi col mito della rivoluzione in funzione di emancipazione antioccidentale (il mito della grande Jamaria).
A complicare l’agenda del nuovo governo, il non trascurabile fatto del perdurare di gravi violazioni dei diritti umani, come più volte denunciato da Amnesty International e Human Right Watch. L’amministrazione della giustizia da parte di tribunali istituiti dalle milizie e non dal governo centrale, il trattamento dei prigionieri, gli abusi, sono tutte questioni che non possono essere trascurate, ma la recente accoglienza che il CNT ha riservato al presidente sudanese Omar Al-Bashir, ricercato in tutto il mondo per crimini contro l’umanità, non lascia ben sperare.
E in tutto questo contesto, consideriamo che troppo spesso si dimentica che costruire la pace è più difficile del vincere le guerre: è un concetto così semplice, ma sempre dimenticato, che quasi ci si vergogna a ricordarlo.
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