domenica, gennaio 15, 2012
Non ci sono dobloni in uno scrigno interrato chissà dove né il percorso per trovarlo è segnato su un pezzo di carta consunto e arrotolato, ma il tesoro dei (nuovi) pirati esiste e ovviamente c’è anche una mappa.

E-ilmensile - L’ha ricostruita Anja Shortland, in un report, pubblicato dal think tank inglese Chatam House, che individua un nesso tra la crescita economica di alcune aree della Somalia e il fiume di denaro che ruota attorno alla moderna pirateria. La tesi di Treasure Mapped: Using Satellite Imagery to Track the Developmental Effects of Somali Piracy è semplice e lineare: il dispiegamento di una flotta navale impressionante, con navi militari di oltre trenta Paesi a protezione del golfo di Aden e del tratto di oceano Indiano a ridosso del Corno d’Africa, non ha prodotto risultati. I pirati sono diventati più violenti e selettivi: hanno cominciato ad attaccare navi che transitavano prive di sistemi di protezione all’avanguardia e di squadre di contractor a bordo. Il riscatto medio per la liberazione degli equipaggi, il vero cuore del business, ha avuto un’impennata: se nel 2008 oscillava tra i 690 mila e i tre milioni di dollari, l’anno successivo si sono pagati anche nove milioni di dollari per un singolo sequestro. La cifra del 2010 non si conosce ancora e forse verrà rivelata solo parzialmente ma è sicuro che i 1016 ostaggi di quell’anno (cifre dell’International Maritime Bureau) frutteranno molto più dei 30 milioni di dollari del 2008 e dei 70 del 2009 (stando alle cifre pagate ufficialmente, in realtà il totale potrebbe molto più alto, ndr). E allora, spiega l’analista, resta solo un approccio land-based, che cioè neutralizzi quelli che sono i santuari della pirateria a terra e il supporto logistico di cui, una volta in mare, i pirati hanno assolutamente bisogno. Ma prima, avverte Shortland, bisogna capire che la pirateria ha prodotto sviluppo e crescita economica. Spiegare dove e come è l’obiettivo del report.

La conclusione alla quale arriva l’autrice è che questo sviluppo non si sia distribuito in modo omogeneo ma abbia premiato alcune aree in particolare, e cioè le tre province in cui è divisa la regione semiautonoma del Puntland, una piccola oasi di pace e stabilità rispetto al caos in cui vive da vent’anni il resto del Paese. Sono le province di Bari, Nugal e Maduq ad aver beneficiato maggiormente del cash flow messo in moto dai riscatti, e in particolare le “capitali” delle prime due: Bosasso e Garowe. Non i piccoli villaggi costieri come Eyl e Hobyo, descritti da numerosi articoli come una sorta di covo dei pirati. Qui la filibusta non investe quasi nulla. Shortland lo dimostra con un’analisi deduttiva che però poggia su numerosi dati e analisi economiche, spiegate nel dettaglio nel capitolo “Allegati”. Una prima strada è quella della comparazione dei salari nominali in scellini somali. Il punto di partenza è che un aumento del circolante favorisce la crescita dell’economia e quindi anche dei salari giornalieri. Se nella provincia di Banaadir, che comprende la capitale Mogadiscio (usata come cartina di tornasole), tra il 2006 e il 2010 i salari sono rimasti pressappoco uguali, nelle tre province del Puntland, a Nugal e Maduq in particolare, sono duplicati. Stesso risultato guardando al prezzo dei capi di bestiame di qualità. Nella macilenta e arretrata economia somala, l’acquisto di capre o montoni non va intesa come una spesa ma come un investimento fatto nell’interesse e per il benessere dell’intero clan. Nelle tre province in questione, si è avuta un’impennata del prezzo dei capi. Alle medesime conclusioni si arriva confrontando la luminosità notturna dei centri abitati somali registrata dai satelliti della National Oceanic Atmospheric Administration, importante perché “la relazione tra la luminosità e parametri economici come lo sviluppo urbano, l’attività economica e la povertà è stata dimostrata”. Garowe, Bosasso e Kismayo sono gli unici centri in cui la contrazione del consumo di energia elettrica (provocata dal caro carburante) è più contenuta, anzi, in cui i picchi del 2009 raggiungono livelli superiori ai picchi del 2007. E poi ci sono le immagini satellitari, che raccontano la metamorfosi dei centri abitati: l’estensione di Garowe in pochi anni è raddoppiata. Nuove strade sono state asfaltate, case e fortificazioni sono spuntate dal nulla, il numero delle auto è cresciuto sensibilmente.

È dove i pirati hanno investito di più che il sostegno è più forte e i fiancheggiatori più numerosi. Come Garowe (dove si concentra il clan dal quale proviene la maggior parte degli assalitori) e Bosasso, il porto in cui si verificano le mediazioni e i riscatti sono pagati. Qui l’economia ha beneficiato di tutto l’indotto della pirateria: con i riscatti, il cui 30/40 per cento rimane in Somalia, sono state pagati gli operai dei cantieri spuntati come funghi, un esercito di autisti, custodi, guardiani e cuochi, per rifocillare i prigionieri, meccanici che riparino le lance sulle quali si muovono i predoni, senza considerare l’afflusso di cibo e armi. Il 40 per cento dei 70 milioni di dollari in riscatto pagati nel 2009 significa 28 milioni di dollari. Questo l’apporto della pirateria all’economia somala. Se si pensa che il budget ufficiale del governo del Puntland per lo stesso anno era di 17,6 milioni, si capisce su cosa si debba puntare per debellare il fenomeno. I pattugliamenti da soli non bastano: per Chatam House la guerra alla pirateria si vince a terra.

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