lunedì, febbraio 20, 2012
La celebre azienda di Cupertino è al centro di un ciclone in relazione alla tutela della privacy dei suoi clienti, e la vicenda è tutt’altro che esaurita

NbTimes - La miccia è stata accesa dal rilievo di uno sviluppatore, che ha sorpreso il social network Path con le mani nel sacco, intento a spedire l’intera sua rubrica contatti ai server dell’azienda. Ora, la House of Representative’s Energy and Commerce Committee chiede ufficialmente lumi al CEO di Apple sulla vicenda. Sul caso si è assistito a una notevole proliferazione di quella che gli anglosassoni chiamano bad press, lett. “cattiva stampa”, una circostanza in cui il susseguirsi di numerosi articoli che illustrano tutti i dettagli di una circostanza sconveniente per qualcuno comporta gravi danni all’immagine e offusca l’affidabilità e la trasparenza di chi ne è vittima.

L’azienda ha immediatamente tentato di correre ai ripari, presentando una nuova versione più “rispettosa” della privacy, accompagnata da una richiesta ufficiale di scuse da parte del CEO Dave Morin. Apple, dal canto suo, per il tramite dei più importanti media statunitensi ha informato di voler intervenire e far chiarezza non soltanto sullo specifico caso, ma anche sulle politiche generalmente adottate per tutelare la privacy degli utenti/clienti.

Tali intenzioni, delineate anche in un comunicato stampa ufficiale, poggiano molto sul ribadire che Apple già proibisce comportamenti allegri sotto questo profilo e che gli sviluppatori sono tenuti a rispettare le politiche dettate in materia dall’azienda. Chi sviluppa un’applicazione, dunque, non può e non deve sottrarsi da un codice deontologico non soltanto intuitivo e arbitrario, ma sagomato soprattutto su quanto viene stabilito in sede contrattuale tra il soggetto che rilascia l’applicazione e Apple.

Tuttavia, stando a quanto rivela la rivista Technology Review, il meccanismo dell’inoltro dell’intera rubrica non è affatto cosa nuova: Apple era stata avvertita sin dal 2010 di tale dato di fatto, posto in essere dall’applicazione di condivisione della location Gowalla (e non solo) e sin da allora, secondo la rivista, l’azienda non si è mostrata concretamente “reattiva” a tali segnalazioni.

Le applicazioni a rischio, racconta la rivista, sono molte di più di quanto si possa pensare. Nel 2010 l’allora laureando Manuel Egle (oggi ricercatore) e alcuni suoi colleghi dell’Università della Californa Santa Barbara hanno impiegato uno strumento software chiamato PiOS e hanno passato al setaccio 1400 applicazioni iPhone, alla ricerca di segnali di attività poco trasparenti. Così è stata scoperta la “losca” attività di Gowalla.

Nonostante tale rilevazione dimostrasse con piena evidenza la notevole breccia in tema di privacy, nonostante Egle si fosse curato di salvare opportuni screenshot di quanto aveva rilevato, all’inevitabile domanda Apple gli ha risposto “se ha problemi concernenti la privacy, dovrebbe contattare lo sviluppatore”. L’intero lavoro di rilevazione del dottor Egle è disponibile in questo studio (PDF).

Presto o tardi, insomma, secondo il CTO di Mobiquity – una grande azienda sviluppatrice di applicazioni – Apple dovrà introdurre cambiamenti radicali alle proprie politiche di tutela. La rivista del MIT evidenzia anche quanto siano diverse fin dai più intimi dettagli della concezione le due politiche adottate da Apple e da Google sul tema: Google, anche in funzione del modello su cui basa il proprio ecosistema, adotta invece delle politiche incentrate sull’obbligatorietà di soddisfazione di requisiti insita nel sistema operativo “concorrente”, Android.

Vi sono – chiarisce a TR Adrienne Porter Felt, dell’Università della California Berkeley – ben 174 diversi permessi codificati nel sistema, che le applicazioni Android sono tenuti a osservare e, quando necessario, ottenere esplicitamente dall’utilizzatore.

Lo scenario, quindi, sarebbe tale da non giustificare più alcuna superficialità: lo dimostra il risoluto intervento di due esponenti della House of Representative’s Energy and Commerce Committee, che hanno scritto senza esitazioni al presidente di Apple, Tim Cook, chiedendo delucidazioni su come si verifichi questa “libertà di accesso” ai dati personali dei clienti da parte delle applicazioni.

Infine, fa notare la rivista del MIT, la Federal Trade Commission USA mostra sempre maggiore interesse sul come le aziende tech decidono di relazionarsi al tema del trattamento e dell’accesso ai dati personali dei loro clienti, il che fornirebbe supporto al sostenere che tali interrogativi della Commission possano aiutare a stabilire se Apple si sia o meno sottratta dalla propria responsabilità di proteggere i dati personali.

Si può dunque concludere che la vicenda è tutt’altro che chiusa: non resta che attendere ulteriori sviluppi. E fare attenzione, a questo punto, a cosa si memorizza nel proprio smartphone, visto “l’andazzo”.

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