mercoledì, febbraio 08, 2012
Il mese scorso il ministro del petrolio norvegese, Ola Borten Moe, ha rilasciato 26 nuove licenze ad alcune tra le più grandi aziende energetiche mondiali per la realizzazione di impianti off-shore nel Mare del Nord.

GreenReport - Il paese, d'altra parte, ha da poco stipulato un accordo quadro con la Russia per lo sfruttamento dei giacimenti del Mare di Barents. Intanto, nuove piattaforme per l'estrazione di petrolio e di gas stanno nascendo come funghi al largo delle coste dell'Alaska, della Groenlandia, della Siberia. Ma i produttori non sono ancora contenti: in un meeting organizzato una decina di giorni fa non a caso a Tromsø, nella Norvegia settentrionale, chiedono di poter accelerare l'esplorazione e l'estrazione di combustibili fossili nei mari che circondano il Polo Nord.

Aveva dunque ragione Laurence C. Smith, professore di Geografia e di Scienze della terra e dello spazio, della University of California di Los Angeles (UCLA), quando sosteneva in un fortunato libro (2050. Il futuro del nuovo Nord, Einaudi, 2011) che «l'Artico è la nuova frontiera».

Il motivo è presto detto. Secondo uno studio realizzato nel 2008 dalla U. S. Geological Survey nell'estremo nord del pianeta si trovano 90 miliardi di barili di petrolio (pari al 13% delle riserve mondiali) e, addirittura, 50.000 miliardi di metri cubi di gas naturale oltre a 44 miliardi di barili di gas naturale liquido (il 30% delle riserve planetaria). E mentre la domanda globale sia di gas che di petrolio cresce e la produzione più convenzionale dell'olio nero sembra aver raggiunto il picco massimo, pochi sanno resistere alla forza di attrazione dei mari del Grande Nord. Tanto più che i cambiamenti del clima li rendono meno inospitali.

Eppure, hanno scritto 573 scienziati al Presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, occorrerebbe grande prudenza. Soprattutto alla luce di quanto è successo nel Golfo del Messico con l'esplosione, nell'estate 2010, della piattaforma Deepwater Horizon. Il fatto è, sostiene il gruppo di scienziati preoccupati, non conosciamo bene la regione artica e i suoi ecosistemi. Così non abbiamo un'idea precisa dell'impatto ecologico che un grave incidente avrebbe sia a scala locale, sia a scala globale. Inoltre proprio la vicenda della Deepwater Horizon ha dimostrato che le tecnologie e le concrete metodologie di estrazione off-shore in mari profondi non sono del tutto sicure. L'incidente della Deepwater Horizon è avvenuto in un luogo relativamente tranquillo, a un tiro di schioppo dalle coste della più grande potenza economica e tecnologica del mondo. Cosa accadrebbe se un incidente analogo avvenisse nel freddo e tuttora poco agevole da navigare Oceano Artico?

Inoltre molti sono i contenziosi tra i paesi: chi ha diritto e dove a esplorare e a estrarre petrolio e gas?

Che fare, dunque, in queste condizioni, dove la corsa al nuovo Eldorado è iniziata ed è, tuttora, senza regole? La rivista scientifica Nature non ha dubbi: occorre giungere al più presto a un Trattato sull'Artico analogo a quel Trattato sull'Antartide firmato a Washington il 1 dicembre del lontano 1959, in piena guerra fredda.

Per oltre mezzo secolo quell'accordo ha impedito che intorno al Polo Sud e alla sue ricchezze si scatenasse una guerra di tutti contro tutti. E ha fatto di quel continente bianco un santuario ecologico in cui l'unica attività umana è la ricerca scientifica.

È possibile oggi ripetere quell'esperienza?

di Pietro Greco

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