Genocidio in Ruanda: il clamore di un’inchiesta che accende i riflettori sulle pagine nere della storia
Pubblicato il rapporto che rivela i retroscena del genocidio in Ruanda spiegando il conflitto fra le due etnie degli hutu e dei tutsi
di Paola Bisconti
La tragica storia del genocidio in Ruanda, accaduto nel 1994, apre un nuovo capitolo investigativo che, seppur non cambierà le sorti delle molteplici morti, dona uno squarcio di luce a tutti coloro che intendono comprendere cosa veramente scatenò uno dei più sanguinosi episodi del ventesimo secolo. Stando agli atti registrati nel 1998 dal giudice francese Jean Louis Bruguière, le accuse ricadevano sul RPF, i ribelli tutsi guidati da Paul Kagame, attuale presidente del Ruanda. Sarebbero stati i guerriglieri tutsi a lanciare dalla collina di Masaka i due missili SA-16 contro l’aereo Falcon che, il 6 aprile, stava trasportando il dittatore Juvenal Habyrumana di rientro da Arusha, in Tanzania, provocandone la sua morte insieme ad altre 12 vittime. Con la relazione tecnica del giudice Marc Trèvidic, sostituto di Bruguière, risulta invece che in seguito ai rilievi compiuti sul posto nell’ottobre del 2010, i razzi sono stati lanciati dal campo Kanombe gestito dai FAR, le forze armate hutu. Questa versione smonta la precedente e proscioglie il presidente Kagame, che era stato ritenuto colpevole di un colpo di Stato e che ora esprime la sua gioia e ritiene lo scorso 10 gennaio, giorno della pubblicazione dell’inchiesta del giudice Trèvidic, una data storica da celebrare, che chiude 17 anni di dubbi e accuse sulle cause e gli autori del genocidio.
Gli hutu estremisti decisero di uccidere il loro presidente perché sospettavano che Habyarimana avesse complottato la spartizione del potere con il capo avverso. Erano convinti che gli accordi di pace siglati ad Arusha non sarebbero stati rispettati e che loro avrebbero avuto un ruolo marginale nella società. Con il pretesto di una vendetta trasversale, il 7 aprile a Kigali iniziarono poi i massacri della popolazione tutsi.
Storicamente, i problemi fra le due etnie sorsero in seguito alla colonizzazione prima dei tedeschi e poi dei belgi, che seminarono l’odio interno. Così i fratelli tutsi e hutu si uccisero tra di loro a causa di un genocidio “ideato” per scopi politici favoriti dall’alleanza con i francesi, tenuta nascosta dagli hutu e ufficialmente omessa nelle relazioni tecniche. Furono create delle liste, gli appelli radiofonici incitavano all’eliminazione, erano state formate delle milizie radicali hutu: tutto ciò per far scomparire definitivamente la minoranza tutsi. Morirono 800.000 persone, tra cui anche alcuni hutu che non intendevano uccidere.
Il resto dell’Occidente, invece, si rifiutava di conoscere quanto stesse accadendo. Non fu fatto clamore sulla vicenda, se non in un secondo momento, quando i fotoreporter raggiunsero i luoghi della vicenda fotografando e riprendendo i cadaveri. Le case vennero bruciate e le persone furono uccise con colpi di machete e bastoni chiodati. Migliaia di corpi martoriati furono gettati nel fiume Akagara che li riversò nel lago Vittoria, sulle coste dell’Uganda. La storia è diventata la trama di un celebre film del 2004 “Hotel Ruanda” che riprende con efficacia la tragedia dell’evento. Eppure un grido di allarme fu lanciato da Papa Giovanni Paolo II che, il 15 maggio del 1994, dalla casa circondariale di Roma “Regina Coeli”, in occasione di una visita ai detenuti, chiese ai ruandesi la fine del massacro: “Tutti dovranno rispondere dei loro crimini davanti alla storia e anzitutto davanti a Dio. Basta col sangue!”.
Il massacro durò cento giorni ma gli odi razziali si estesero nelle nazioni vicine provocando la Prima e la Seconda Guerra del Golfo, nonché la Guerra Civile del Burundi. Rimane il fatto che i problemi in Ruanda non sono conclusi e ancora regna un malessere sociale dovuto all’estrema povertà della popolazione. A testimoniare il passato c’è il racconto di una sopravvissuta, Yolande Mukagasana: nata nel 1954, è riuscita a salvarsi dal genocidio grazie all’aiuto di Jacqueline, una donna hutu. La sua storia è raccontata nel celebre libro “La morte non mi ha voluto” edito “La Meridiana”. Yolande era un’infermiera che gestiva un piccolo centro a Kigali, la capitale del paese nonché lo scenario della tragedia. Apprese dalla radio RTLM che erano iniziati i massacri, dove morirono il marito e i suoi tre figli in maniera orribile. Lei riuscì a nascondersi sotto il lavandino della casa di Jacqueline coperta con un sacco di carbone. Nel 1999 si rifugiò in Belgio dove ha ottenuto la cittadinanza. Ora lavora come scrittrice e attivista grazie ai suoi libri che le hanno permesso di vincere il Premio Langer, il Premio per l’Intesa Internazionale tra i popoli e i diritti umani, il Premio Colomba d’oro per la Pace, il Premio Donna del XXI secolo per la Resistenza e di ricevere la Menzione Onorevole dall’Unesco per l’Educazione alla Pace. Yolande partecipa attivamente alla fondazione Onlus “Bene Ruanda” che le consente di portare la sua testimonianza in tutto il mondo denunciando i gruppi politici e i dirigenti che hanno deciso e programmato il genocidio, accusando tutti coloro che si sono resi strumento di una brutale esecuzione e colpevolizzando l’intera comunità internazionale che è rimasta passiva e indifferente.
di Paola Bisconti
La tragica storia del genocidio in Ruanda, accaduto nel 1994, apre un nuovo capitolo investigativo che, seppur non cambierà le sorti delle molteplici morti, dona uno squarcio di luce a tutti coloro che intendono comprendere cosa veramente scatenò uno dei più sanguinosi episodi del ventesimo secolo. Stando agli atti registrati nel 1998 dal giudice francese Jean Louis Bruguière, le accuse ricadevano sul RPF, i ribelli tutsi guidati da Paul Kagame, attuale presidente del Ruanda. Sarebbero stati i guerriglieri tutsi a lanciare dalla collina di Masaka i due missili SA-16 contro l’aereo Falcon che, il 6 aprile, stava trasportando il dittatore Juvenal Habyrumana di rientro da Arusha, in Tanzania, provocandone la sua morte insieme ad altre 12 vittime. Con la relazione tecnica del giudice Marc Trèvidic, sostituto di Bruguière, risulta invece che in seguito ai rilievi compiuti sul posto nell’ottobre del 2010, i razzi sono stati lanciati dal campo Kanombe gestito dai FAR, le forze armate hutu. Questa versione smonta la precedente e proscioglie il presidente Kagame, che era stato ritenuto colpevole di un colpo di Stato e che ora esprime la sua gioia e ritiene lo scorso 10 gennaio, giorno della pubblicazione dell’inchiesta del giudice Trèvidic, una data storica da celebrare, che chiude 17 anni di dubbi e accuse sulle cause e gli autori del genocidio.
Gli hutu estremisti decisero di uccidere il loro presidente perché sospettavano che Habyarimana avesse complottato la spartizione del potere con il capo avverso. Erano convinti che gli accordi di pace siglati ad Arusha non sarebbero stati rispettati e che loro avrebbero avuto un ruolo marginale nella società. Con il pretesto di una vendetta trasversale, il 7 aprile a Kigali iniziarono poi i massacri della popolazione tutsi.
Storicamente, i problemi fra le due etnie sorsero in seguito alla colonizzazione prima dei tedeschi e poi dei belgi, che seminarono l’odio interno. Così i fratelli tutsi e hutu si uccisero tra di loro a causa di un genocidio “ideato” per scopi politici favoriti dall’alleanza con i francesi, tenuta nascosta dagli hutu e ufficialmente omessa nelle relazioni tecniche. Furono create delle liste, gli appelli radiofonici incitavano all’eliminazione, erano state formate delle milizie radicali hutu: tutto ciò per far scomparire definitivamente la minoranza tutsi. Morirono 800.000 persone, tra cui anche alcuni hutu che non intendevano uccidere.
Il resto dell’Occidente, invece, si rifiutava di conoscere quanto stesse accadendo. Non fu fatto clamore sulla vicenda, se non in un secondo momento, quando i fotoreporter raggiunsero i luoghi della vicenda fotografando e riprendendo i cadaveri. Le case vennero bruciate e le persone furono uccise con colpi di machete e bastoni chiodati. Migliaia di corpi martoriati furono gettati nel fiume Akagara che li riversò nel lago Vittoria, sulle coste dell’Uganda. La storia è diventata la trama di un celebre film del 2004 “Hotel Ruanda” che riprende con efficacia la tragedia dell’evento. Eppure un grido di allarme fu lanciato da Papa Giovanni Paolo II che, il 15 maggio del 1994, dalla casa circondariale di Roma “Regina Coeli”, in occasione di una visita ai detenuti, chiese ai ruandesi la fine del massacro: “Tutti dovranno rispondere dei loro crimini davanti alla storia e anzitutto davanti a Dio. Basta col sangue!”.
Il massacro durò cento giorni ma gli odi razziali si estesero nelle nazioni vicine provocando la Prima e la Seconda Guerra del Golfo, nonché la Guerra Civile del Burundi. Rimane il fatto che i problemi in Ruanda non sono conclusi e ancora regna un malessere sociale dovuto all’estrema povertà della popolazione. A testimoniare il passato c’è il racconto di una sopravvissuta, Yolande Mukagasana: nata nel 1954, è riuscita a salvarsi dal genocidio grazie all’aiuto di Jacqueline, una donna hutu. La sua storia è raccontata nel celebre libro “La morte non mi ha voluto” edito “La Meridiana”. Yolande era un’infermiera che gestiva un piccolo centro a Kigali, la capitale del paese nonché lo scenario della tragedia. Apprese dalla radio RTLM che erano iniziati i massacri, dove morirono il marito e i suoi tre figli in maniera orribile. Lei riuscì a nascondersi sotto il lavandino della casa di Jacqueline coperta con un sacco di carbone. Nel 1999 si rifugiò in Belgio dove ha ottenuto la cittadinanza. Ora lavora come scrittrice e attivista grazie ai suoi libri che le hanno permesso di vincere il Premio Langer, il Premio per l’Intesa Internazionale tra i popoli e i diritti umani, il Premio Colomba d’oro per la Pace, il Premio Donna del XXI secolo per la Resistenza e di ricevere la Menzione Onorevole dall’Unesco per l’Educazione alla Pace. Yolande partecipa attivamente alla fondazione Onlus “Bene Ruanda” che le consente di portare la sua testimonianza in tutto il mondo denunciando i gruppi politici e i dirigenti che hanno deciso e programmato il genocidio, accusando tutti coloro che si sono resi strumento di una brutale esecuzione e colpevolizzando l’intera comunità internazionale che è rimasta passiva e indifferente.
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