E' on line il terzo numero de "I Siciliani giovani"
Liberainformazione - moreFatta morire dalla sua famiglia perché aveva scelto la libertà. Maria Concetta Cacciola aveva trentun anni, viveva a Rosarno, era sposata e aveva tre figli. Il 20 agosto del 2011 si suicida ingerendo acido muriatico. Pochi giorni fa, il padre, la madre e il fratello vengono arrestati. Maria Concetta era una testimone di giustizia: figlia di Michele Cacciola, cognato del boss Bellocco, e moglie di Salvatore Figliuzzi, in carcere dal associazione a delinquere di stampo mafioso. Vivevano tutti nella stessa casa: erano i nonni a pensare alla famiglia. In quei posti il vincolo di sangue non lo scioglie nemmeno l’acido. La famiglia non si deve macchiare di vergogna altrimenti la cosca perde potere: la vergogna non consiste solo nell'avere "un pentito" sotto al tetto, basta tradire tuo marito mentre lui è in carcere.
Per la ndragheta il matrimonio è per sempre: di divorzio manco a parlarne. La storia di Maria Concetta comincia così. In una lettera alla madre, scrive del marito: «A tredici anni, sposata per avereun po’ di libertà, credevo che potessi tutto, invece mi sono rovinata la vita perché non mi amava, né l’amo, e tu lo sai». Si sposano dopo una “fuitina”, poi nascono i figli. Troppo tardi per pentirsi. Forse Maria Concetta la sua vita se l’era immaginata diversa, nessuna particolare ambizione. Ci sono luoghi dove nemmeno i sogni ti puoi permettere, perché finisce che ti mangiano il fegato, peggio dell’acido muriatico. Maria Concetta, dopo l’arresto del marito, probabilmente incontra altri uomini e a Rosarno certe notizie viaggiano veloci.
A casa cominciano ad arrivare lettere anonime, siamo a giugno del 2010. Non la fanno più uscire, rimarrà fra quelle mura fino al maggio dell’anno successivo. Le rare volte in cui valica la porta di casa viene pedinata dal fratello. Non basta: viene picchiata, le botte sono così forti che le sue costole si incrinano o forse si rompono. Non si saprà mai: non verrà mai portata in ospedale. Viene curata a casa da un medico di fiducia. Maria Concetta è sola, non può parlare neppure con la madre. Nelle famiglie mafiose il mondo delle donne si è spaccato a metà: ci sono le madri, che hanno mangiato fin da piccole pane e omertà, che proteggono i propri mariti, che tengono unita la famiglia, la lucidano come l’argenteria, cancellano la vergogna a colpi di spazzola. E poi ci sono le figlie, che pensano troppo, che proprio non riescono a quietarsi.
Maria Concetta a maggio viene chiamata dall'Arma di Rosarno perché Alfonso, il figlio più grande, aveva combinato un guaio col motorino. Arrivata in caserma, chiede aiuto e racconta tutto quello che sa, prima ai carabinieri e poialla Dda di Reggio Calabria. È stata la paura a farle scegliere lo Stato, l’amore di mamma che voleva un futuro diverso per i suoi figli? Maria Concetta semplicemente chiama le cose col loro nome, da’ un’identità a luoghi e a persone fino ad allora nell’ombra. Decide che quel vincolo di sangue non è per sempre. Lontano, più lontano che si può. Da quando entra a far parte del Servizio Centrale di Protezione, non può più rimanere a casa sua: un pomeriggio dice che andrà a fare visita al suocero e scappa. Per un primo periodo alloggerà nel cosentino, ma qualcuno potrebbe riconoscerla: viene trasferita dall'altra parte d’Italia, a Bolzano. La parola d’ordine è: lontano, più lontano che si può. Sola, in una città straniera Maria Concetta pensa ai figli che non ha potuto portare con sé. Aveva scritto alla madre: «Ti affido i miei figli. Ti supplico non fare con loro l’errore che hai fatto con me: dagli i suoi spazi, se li chiudi è facile sbagliare».
Non è solo la distanza, ha paura che la famiglia possa ritorcersi contro di loro. Cede e telefona alla madre. Lo confesserà alla scorta che la trasferisce a Genova. «Da Genova io ho richiamato di nuovo mia madre dicendo che la voglio vedere perché a me mi mancava». La famiglia di Maria Concetta arriva fino in Liguria, la mettono in macchina per riportala a Rosarno. Durante il viaggio di ritorno si fermano per una sosta a Reggio Emilia, lei si pente e telefona ai carabinieri, che la riportano a Genova. Ma probabilmente qualcuno le impone con più decisione di «spegnere tutto». Richiamala madre per l’ultima volta: «Portami a casa». A Genova arrivano in tre: il fratello, una delle figlie e la madre. E’ il dieci di agosto quando arrivano a Rosarno. Pochissimi giorni dopo, Maria Concetta scrive una lettera e registra un nastro. Racconta dei colloqui con la Dda: «Gli ho detto delle cose per arrivare allo scopo di andare via da casa, ho detto pure delle cose che mi sono infangata anche io stessa per il fatto di andare via da casa mia». Pausa nel nastro: «È da tre giorni che sono a casa mia tra mio padre, mia madre, i miei fratelli, i miei figli ed ho riacquistato la serenità che cercavo.Vorrei aggiungere che avevo scritto una lettera che aggiungo con questa registrazione e vorrei lasciata in pace in futuro. E non essere chiamata da nessuno».
Le dichiarazioni rese alla magistratura vengono sconfessate da quel nastro: la testimone dice di aver accusato la sua famiglia per vendicarsi del padre e del fratello che la maltrattavano. La ‘ndrangheta? Non ne sa nulla, Maria Concetta vuole essere lasciata in pace. Il 20 agosto va in bagno e ingoia l’acido muriatico. Muore in ospedale.
Istigazione al suicidio. Viene aperta un’inchiesta per istigazione al suicidio. Laura Garavini del Pd solleva un’interrogazione parlamentare: perché la testimone è stata separata dai figli? Il Servizio di Protezione che opera per il ministero dell’Interno ne era a conoscenza? Dal Governo nessuna risposta. Pochi giorni dopo il suicidio, la famiglia Cacciola presenta un esposto col quale accusa i magistrati di aver convinto la figlia a collaborare con false promesse. La madre di Maria Concetta scrive anche ad un giornale locale: «Al di là del mero dato parentale, né mio marito, né alcun componente del mio nucleo familiare ha mai condiviso vicissitudini giudiziarie ovvero sia pure semplici rapporti di frequentazione criminale con Gregorio Bellocco».
Lo scorso 9 febbraio, all’alba, la famiglia Cacciola viene arrestata; secondo la procura di Palmi avrebbe portato la donna a suicidarsi "attraverso reiterati atti diviolenza fisica e psicologica". Grazie alle dichiarazioni che la testimone fece alla Dda, lo stesso 9 febbraio, con l’operazione Califfo vengono messe in manette undici persone, probabilmente legate alla cosca Pesce. Ha vinto lo Stato? Maria Concetta ha scelto il coraggio, come Lea Garafolo, come Tita Buccafusca, come tante altre donne, come tante altre madri. È perdonabile la distrazione di uno Stato che affida i figli di una testimone di giustizia alla stessa famiglia da cui questa sta scappando? Maria Concetta è tornata da loro per proteggerli, poco dopo sceglie di far vedere il proprio cadavere a quegli stessi occhi per cui è tornata indietro. Questa volta quei tre ragazzini, la cui intera famiglia è in carcere, a chi verranno affidati?
Liberainformazione - moreFatta morire dalla sua famiglia perché aveva scelto la libertà. Maria Concetta Cacciola aveva trentun anni, viveva a Rosarno, era sposata e aveva tre figli. Il 20 agosto del 2011 si suicida ingerendo acido muriatico. Pochi giorni fa, il padre, la madre e il fratello vengono arrestati. Maria Concetta era una testimone di giustizia: figlia di Michele Cacciola, cognato del boss Bellocco, e moglie di Salvatore Figliuzzi, in carcere dal associazione a delinquere di stampo mafioso. Vivevano tutti nella stessa casa: erano i nonni a pensare alla famiglia. In quei posti il vincolo di sangue non lo scioglie nemmeno l’acido. La famiglia non si deve macchiare di vergogna altrimenti la cosca perde potere: la vergogna non consiste solo nell'avere "un pentito" sotto al tetto, basta tradire tuo marito mentre lui è in carcere.
Per la ndragheta il matrimonio è per sempre: di divorzio manco a parlarne. La storia di Maria Concetta comincia così. In una lettera alla madre, scrive del marito: «A tredici anni, sposata per avereun po’ di libertà, credevo che potessi tutto, invece mi sono rovinata la vita perché non mi amava, né l’amo, e tu lo sai». Si sposano dopo una “fuitina”, poi nascono i figli. Troppo tardi per pentirsi. Forse Maria Concetta la sua vita se l’era immaginata diversa, nessuna particolare ambizione. Ci sono luoghi dove nemmeno i sogni ti puoi permettere, perché finisce che ti mangiano il fegato, peggio dell’acido muriatico. Maria Concetta, dopo l’arresto del marito, probabilmente incontra altri uomini e a Rosarno certe notizie viaggiano veloci.
A casa cominciano ad arrivare lettere anonime, siamo a giugno del 2010. Non la fanno più uscire, rimarrà fra quelle mura fino al maggio dell’anno successivo. Le rare volte in cui valica la porta di casa viene pedinata dal fratello. Non basta: viene picchiata, le botte sono così forti che le sue costole si incrinano o forse si rompono. Non si saprà mai: non verrà mai portata in ospedale. Viene curata a casa da un medico di fiducia. Maria Concetta è sola, non può parlare neppure con la madre. Nelle famiglie mafiose il mondo delle donne si è spaccato a metà: ci sono le madri, che hanno mangiato fin da piccole pane e omertà, che proteggono i propri mariti, che tengono unita la famiglia, la lucidano come l’argenteria, cancellano la vergogna a colpi di spazzola. E poi ci sono le figlie, che pensano troppo, che proprio non riescono a quietarsi.
Maria Concetta a maggio viene chiamata dall'Arma di Rosarno perché Alfonso, il figlio più grande, aveva combinato un guaio col motorino. Arrivata in caserma, chiede aiuto e racconta tutto quello che sa, prima ai carabinieri e poialla Dda di Reggio Calabria. È stata la paura a farle scegliere lo Stato, l’amore di mamma che voleva un futuro diverso per i suoi figli? Maria Concetta semplicemente chiama le cose col loro nome, da’ un’identità a luoghi e a persone fino ad allora nell’ombra. Decide che quel vincolo di sangue non è per sempre. Lontano, più lontano che si può. Da quando entra a far parte del Servizio Centrale di Protezione, non può più rimanere a casa sua: un pomeriggio dice che andrà a fare visita al suocero e scappa. Per un primo periodo alloggerà nel cosentino, ma qualcuno potrebbe riconoscerla: viene trasferita dall'altra parte d’Italia, a Bolzano. La parola d’ordine è: lontano, più lontano che si può. Sola, in una città straniera Maria Concetta pensa ai figli che non ha potuto portare con sé. Aveva scritto alla madre: «Ti affido i miei figli. Ti supplico non fare con loro l’errore che hai fatto con me: dagli i suoi spazi, se li chiudi è facile sbagliare».
Non è solo la distanza, ha paura che la famiglia possa ritorcersi contro di loro. Cede e telefona alla madre. Lo confesserà alla scorta che la trasferisce a Genova. «Da Genova io ho richiamato di nuovo mia madre dicendo che la voglio vedere perché a me mi mancava». La famiglia di Maria Concetta arriva fino in Liguria, la mettono in macchina per riportala a Rosarno. Durante il viaggio di ritorno si fermano per una sosta a Reggio Emilia, lei si pente e telefona ai carabinieri, che la riportano a Genova. Ma probabilmente qualcuno le impone con più decisione di «spegnere tutto». Richiamala madre per l’ultima volta: «Portami a casa». A Genova arrivano in tre: il fratello, una delle figlie e la madre. E’ il dieci di agosto quando arrivano a Rosarno. Pochissimi giorni dopo, Maria Concetta scrive una lettera e registra un nastro. Racconta dei colloqui con la Dda: «Gli ho detto delle cose per arrivare allo scopo di andare via da casa, ho detto pure delle cose che mi sono infangata anche io stessa per il fatto di andare via da casa mia». Pausa nel nastro: «È da tre giorni che sono a casa mia tra mio padre, mia madre, i miei fratelli, i miei figli ed ho riacquistato la serenità che cercavo.Vorrei aggiungere che avevo scritto una lettera che aggiungo con questa registrazione e vorrei lasciata in pace in futuro. E non essere chiamata da nessuno».
Le dichiarazioni rese alla magistratura vengono sconfessate da quel nastro: la testimone dice di aver accusato la sua famiglia per vendicarsi del padre e del fratello che la maltrattavano. La ‘ndrangheta? Non ne sa nulla, Maria Concetta vuole essere lasciata in pace. Il 20 agosto va in bagno e ingoia l’acido muriatico. Muore in ospedale.
Istigazione al suicidio. Viene aperta un’inchiesta per istigazione al suicidio. Laura Garavini del Pd solleva un’interrogazione parlamentare: perché la testimone è stata separata dai figli? Il Servizio di Protezione che opera per il ministero dell’Interno ne era a conoscenza? Dal Governo nessuna risposta. Pochi giorni dopo il suicidio, la famiglia Cacciola presenta un esposto col quale accusa i magistrati di aver convinto la figlia a collaborare con false promesse. La madre di Maria Concetta scrive anche ad un giornale locale: «Al di là del mero dato parentale, né mio marito, né alcun componente del mio nucleo familiare ha mai condiviso vicissitudini giudiziarie ovvero sia pure semplici rapporti di frequentazione criminale con Gregorio Bellocco».
Lo scorso 9 febbraio, all’alba, la famiglia Cacciola viene arrestata; secondo la procura di Palmi avrebbe portato la donna a suicidarsi "attraverso reiterati atti diviolenza fisica e psicologica". Grazie alle dichiarazioni che la testimone fece alla Dda, lo stesso 9 febbraio, con l’operazione Califfo vengono messe in manette undici persone, probabilmente legate alla cosca Pesce. Ha vinto lo Stato? Maria Concetta ha scelto il coraggio, come Lea Garafolo, come Tita Buccafusca, come tante altre donne, come tante altre madri. È perdonabile la distrazione di uno Stato che affida i figli di una testimone di giustizia alla stessa famiglia da cui questa sta scappando? Maria Concetta è tornata da loro per proteggerli, poco dopo sceglie di far vedere il proprio cadavere a quegli stessi occhi per cui è tornata indietro. Questa volta quei tre ragazzini, la cui intera famiglia è in carcere, a chi verranno affidati?
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