In Turchia i rifugiati iracheni non sono adeguatamente assistiti». E’ la denuncia raccolta da Aiuto alla Chiesa che Soffre di don Andrés Calleja, direttore dell’opera dei Padri Salesiani di Istanbul.
Il sacerdote appartiene all’ispettoria di Indonesia -Timor Est, in cui ha operato per oltre trent’anni, ma dal 2011 il Rettor Maggiore lo ha richiesto nell’ispettoria del Medio Oriente affidandogli i compiti di direttore ed economo della comunità di Istanbul. Alla Fondazione pontificia racconta le lunghe attese dei rifugiati iracheni in cerca di un visto per raggiungere Canada, Europa e Stati Uniti. «In media aspettano da tre a quattro anni – dice ad ACS – durante i quali agli adulti non è permesso lavorare e ai bambini non è consentito frequentare la scuola».
E nella maggioranza dei casi si tratta di cristiani le «cui necessità spirituali non sono affatto prese in considerazione». I fedeli sono infatti indirizzati verso differenti località in cui spesso non è garantito alcun servizio pastorale e non vi è una comunità cristiana.
Aiuto alla Chiesa che Soffre sostiene da molti anni il programma di assistenza ai rifugiati dei padri salesiani di Istanbul. Un supporto che permette ai sacerdoti dell’istituto fondato da San Giovanni Bosco di prendersi cura di tutte le famiglie irachene giunte in Turchia. «Assicurarci che i bambini ricevano un’adeguata istruzione – spiega don Calleja – è una delle nostre prime preoccupazioni». Sono in tanti i piccoli che non sanno leggere né scrivere perché in Iraq, a causa della mancanza di sicurezza, i genitori hanno preferito tenerli a casa. Non è però facile per i salesiani insegnare ai loro oltre cento alunni. In Turchia gli istituti privati devono essere registrati ed i sacerdoti sono costretti ad operare in «un’area grigia», al confine tra il legale e l’illegale: «la nostra scuola potrebbe essere chiusa in ogni momento».
I bambini non sono gli unici ad aver bisogno di assistenza. E le necessità degli adulti vanno ben oltre la semplice ricerca di un’abitazione e di un posto di lavoro. «A queste persone serve un grande supporto di tipo sociale – continua don Andrés – in modo che, una volta raggiunte le antitetiche società occidentali, non siano sopraffatti dalle difficoltà di integrazione».
Il sacerdote appartiene all’ispettoria di Indonesia -Timor Est, in cui ha operato per oltre trent’anni, ma dal 2011 il Rettor Maggiore lo ha richiesto nell’ispettoria del Medio Oriente affidandogli i compiti di direttore ed economo della comunità di Istanbul. Alla Fondazione pontificia racconta le lunghe attese dei rifugiati iracheni in cerca di un visto per raggiungere Canada, Europa e Stati Uniti. «In media aspettano da tre a quattro anni – dice ad ACS – durante i quali agli adulti non è permesso lavorare e ai bambini non è consentito frequentare la scuola».
E nella maggioranza dei casi si tratta di cristiani le «cui necessità spirituali non sono affatto prese in considerazione». I fedeli sono infatti indirizzati verso differenti località in cui spesso non è garantito alcun servizio pastorale e non vi è una comunità cristiana.
Aiuto alla Chiesa che Soffre sostiene da molti anni il programma di assistenza ai rifugiati dei padri salesiani di Istanbul. Un supporto che permette ai sacerdoti dell’istituto fondato da San Giovanni Bosco di prendersi cura di tutte le famiglie irachene giunte in Turchia. «Assicurarci che i bambini ricevano un’adeguata istruzione – spiega don Calleja – è una delle nostre prime preoccupazioni». Sono in tanti i piccoli che non sanno leggere né scrivere perché in Iraq, a causa della mancanza di sicurezza, i genitori hanno preferito tenerli a casa. Non è però facile per i salesiani insegnare ai loro oltre cento alunni. In Turchia gli istituti privati devono essere registrati ed i sacerdoti sono costretti ad operare in «un’area grigia», al confine tra il legale e l’illegale: «la nostra scuola potrebbe essere chiusa in ogni momento».
I bambini non sono gli unici ad aver bisogno di assistenza. E le necessità degli adulti vanno ben oltre la semplice ricerca di un’abitazione e di un posto di lavoro. «A queste persone serve un grande supporto di tipo sociale – continua don Andrés – in modo che, una volta raggiunte le antitetiche società occidentali, non siano sopraffatti dalle difficoltà di integrazione».
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