L'Onu condanna la repressione in Siria, ma la violenza
non si ferma. Padre Samir: situazione insopportabile
non si ferma. Padre Samir: situazione insopportabile
Dopo la denuncia, ieri, da parte del segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon di “crimini contro l’umanità” in Siria, questa notte l’Assemblea Generale ha approvato una risoluzione di condanna per la repressione in atto; il documento è stato definito “una vittoria della rivolta” da parte del Consiglio nazionale siriano che riunisce buona parte dell'opposizione all'estero al presidente Bashar al-Assad. L’interesse della comunità internazionale, però, non sembra corrispondere ad una normalizzazione. Il regime, infatti, non placa l’offensiva contro le roccaforti della protesta. Coinvolte, dopo Homs, Hama e Idlib, anche la regione meridionale di Daraa. Ed il bilancio delle vittime è davvero drammatico: almeno 70 i morti nelle ultime ore.
Radio Vaticana - Salvatore Sabatino ha parlato della situazione nel Paese con il padre gesuita Samir Khalil Samir, docente di Storia della cultura araba e Islamologia all’Università Saint-Joseph di Beirut:
R. – Di fatto la Comunità internazionale può soltanto esercitare pressioni: già questo, però, aiuta la gente che protesta, perché gli dà coraggio. Però concretamente è poi il regime che farà quello che dovrà fare. Questa pressione internazionale indebolisce la posizione del regime e, forse, questo può aiutare a fargli prendere la decisione di ritirarsi, perché non si può continuare così! Il governo ha promesso che fra 15 giorni ci saranno elezioni, ma è un modo per prendere tempo e continuare intanto la guerra! La guerra è fra le due parti, ma è una guerra diseguale: l’opposizione non ha i carri armati, non ha le stesse armi che ha il governo.
D. – Padre Samir, questo tipo di guerra va ad agire soprattutto sulla popolazione - abbiamo visto moltissimi morti civili – e soprattutto va ad agire dal punto di vista economico. Il Paese sta pagando un prezzo enorme…
R. – Una lettera dei padri gesuiti arrivata in questi giorni da Homs dice che una gran parte della popolazione non trova da mangiare o ha paura di uscire per comprarlo, perché rischia la vita. Ci sono cecchini dappertutto, dalle due parti: chiunque può morire! E’ una situazione umanamente insopportabile! Adesso soprattutto nella città di Homs, ma anche in diverse località della Siria, la guerra si è generalizzata: stiamo passando a una guerra civile.
D. – Bisogna anche dire che la Siria è un Paese molto particolare e questa situazione così drammatica che sta vivendo potrebbe avere degli effetti anche nei Paesi limitrofi: sappiamo dei rapporti delicati con il Libano; sappiamo che i rapporti si sono complicati molto anche con la Turchia, ultimamente, per la questione dei profughi…
R. – In Libano temono questa situazione, a causa della vicinanza, perché parecchi profughi valicano la frontiera. La Turchia di fatto non la teme, perché è un Paese grande e forte. Quello che può succedere o piuttosto ciò che si teme che possa succedere è all’interno del Paese stesso e cioè la guerra tra fazioni.
D. – Padre Samir, volevo parlare con lei della quotidianità che si vive in questo Paese: è una quotidianità difficile, perché piegata dalle violenze, ma anche da una grossissima crisi economica derivata da queste proteste. Ci può raccontare come si vive una giornata in Siria in questo periodo?
R. – La gente che può fugge: questa è la prima soluzione. Rimanere nei punti caldi significa rischiare la morte: senza accorgersene, semplicemente il passo più banale può essere l’ultimo. Per evitare questo la gente si protegge come può, ma anche le case non sono sicure… Proteggersi vuol dire non uscire, ma questo vuol dire anche soffrire la fame. Tutto è diventato precario.
D. – E’ una guerra che coinvolge davvero tutti: abbiamo sentito dati impressionanti sul coinvolgimento dei bambini, ne parla l’Unicef, ne hanno parlato il Papa e Ban Ki-moon…. Insomma una situazione drammatica anche questo punto di vista...
R. – Lo è perché non si fa più differenza. Arrivati a questo punto non c’è più umanità: c’è solo la violenza per arrivare a vincere a tutti i costi. Questa è la vera tragedia! Da tempo doveva esser fatto qualcosa e non si è fatto nulla! Il governo non ha ceduto e l’unico metodo che ha è quello della repressione.
D. – Padre Samir, quale potrebbe essere la chiave di volta per fare un passo indietro, per far sì che questo Paese non scivoli verso la guerra civile?
R. – Se il governo riconosce che la situazione così com’è non è più vivibile e decide di rinunciare al potere - come hanno fatto i presidenti della Tunisia, dell’Egitto… - allora ci potrebbe essere una soluzione. Sembra, però, che questo passo non lo vogliano fare.
D. – Ho sentito più volte in questi giorni parlare di una “sindrome irachena”, che coinvolge soprattutto i cristiani: i cristiani che sono presenti in Siria hanno paura poi di dover fuggire e che quindi la loro comunità scompaia dal Paese…
R. – Io spero che questo non avvenga. I cristiani erano e sono un elemento di stabilità di questo Paese: danno un contributo economico, anche politico. Al di là del numero, della loro proporzione - i cristiani rappresentano il 10 per cento – hanno un peso certamente più grande rispetto a quello che è il loro numero. Partire sarebbe una perdita non soltanto per i cristiani, ma per la nazione: per quanto è possibile, noi cristiani abbiamo il dovere di rimanere finché si può. L’esilio sarebbe catastrofico per tutto il Medio Oriente: in Palestina ormai i cristiani non torneranno più; in Iraq, lo stesso; in Giordania, i cristiani sono pochi… In tutta questa zona, fatta eccezione per il Libano, e dopo il Libano è la Siria che può dare forza ai cristiani di tutta questa parte, che va dall’Iraq alla Palestina.
Radio Vaticana - Salvatore Sabatino ha parlato della situazione nel Paese con il padre gesuita Samir Khalil Samir, docente di Storia della cultura araba e Islamologia all’Università Saint-Joseph di Beirut:
R. – Di fatto la Comunità internazionale può soltanto esercitare pressioni: già questo, però, aiuta la gente che protesta, perché gli dà coraggio. Però concretamente è poi il regime che farà quello che dovrà fare. Questa pressione internazionale indebolisce la posizione del regime e, forse, questo può aiutare a fargli prendere la decisione di ritirarsi, perché non si può continuare così! Il governo ha promesso che fra 15 giorni ci saranno elezioni, ma è un modo per prendere tempo e continuare intanto la guerra! La guerra è fra le due parti, ma è una guerra diseguale: l’opposizione non ha i carri armati, non ha le stesse armi che ha il governo.
D. – Padre Samir, questo tipo di guerra va ad agire soprattutto sulla popolazione - abbiamo visto moltissimi morti civili – e soprattutto va ad agire dal punto di vista economico. Il Paese sta pagando un prezzo enorme…
R. – Una lettera dei padri gesuiti arrivata in questi giorni da Homs dice che una gran parte della popolazione non trova da mangiare o ha paura di uscire per comprarlo, perché rischia la vita. Ci sono cecchini dappertutto, dalle due parti: chiunque può morire! E’ una situazione umanamente insopportabile! Adesso soprattutto nella città di Homs, ma anche in diverse località della Siria, la guerra si è generalizzata: stiamo passando a una guerra civile.
D. – Bisogna anche dire che la Siria è un Paese molto particolare e questa situazione così drammatica che sta vivendo potrebbe avere degli effetti anche nei Paesi limitrofi: sappiamo dei rapporti delicati con il Libano; sappiamo che i rapporti si sono complicati molto anche con la Turchia, ultimamente, per la questione dei profughi…
R. – In Libano temono questa situazione, a causa della vicinanza, perché parecchi profughi valicano la frontiera. La Turchia di fatto non la teme, perché è un Paese grande e forte. Quello che può succedere o piuttosto ciò che si teme che possa succedere è all’interno del Paese stesso e cioè la guerra tra fazioni.
D. – Padre Samir, volevo parlare con lei della quotidianità che si vive in questo Paese: è una quotidianità difficile, perché piegata dalle violenze, ma anche da una grossissima crisi economica derivata da queste proteste. Ci può raccontare come si vive una giornata in Siria in questo periodo?
R. – La gente che può fugge: questa è la prima soluzione. Rimanere nei punti caldi significa rischiare la morte: senza accorgersene, semplicemente il passo più banale può essere l’ultimo. Per evitare questo la gente si protegge come può, ma anche le case non sono sicure… Proteggersi vuol dire non uscire, ma questo vuol dire anche soffrire la fame. Tutto è diventato precario.
D. – E’ una guerra che coinvolge davvero tutti: abbiamo sentito dati impressionanti sul coinvolgimento dei bambini, ne parla l’Unicef, ne hanno parlato il Papa e Ban Ki-moon…. Insomma una situazione drammatica anche questo punto di vista...
R. – Lo è perché non si fa più differenza. Arrivati a questo punto non c’è più umanità: c’è solo la violenza per arrivare a vincere a tutti i costi. Questa è la vera tragedia! Da tempo doveva esser fatto qualcosa e non si è fatto nulla! Il governo non ha ceduto e l’unico metodo che ha è quello della repressione.
D. – Padre Samir, quale potrebbe essere la chiave di volta per fare un passo indietro, per far sì che questo Paese non scivoli verso la guerra civile?
R. – Se il governo riconosce che la situazione così com’è non è più vivibile e decide di rinunciare al potere - come hanno fatto i presidenti della Tunisia, dell’Egitto… - allora ci potrebbe essere una soluzione. Sembra, però, che questo passo non lo vogliano fare.
D. – Ho sentito più volte in questi giorni parlare di una “sindrome irachena”, che coinvolge soprattutto i cristiani: i cristiani che sono presenti in Siria hanno paura poi di dover fuggire e che quindi la loro comunità scompaia dal Paese…
R. – Io spero che questo non avvenga. I cristiani erano e sono un elemento di stabilità di questo Paese: danno un contributo economico, anche politico. Al di là del numero, della loro proporzione - i cristiani rappresentano il 10 per cento – hanno un peso certamente più grande rispetto a quello che è il loro numero. Partire sarebbe una perdita non soltanto per i cristiani, ma per la nazione: per quanto è possibile, noi cristiani abbiamo il dovere di rimanere finché si può. L’esilio sarebbe catastrofico per tutto il Medio Oriente: in Palestina ormai i cristiani non torneranno più; in Iraq, lo stesso; in Giordania, i cristiani sono pochi… In tutta questa zona, fatta eccezione per il Libano, e dopo il Libano è la Siria che può dare forza ai cristiani di tutta questa parte, che va dall’Iraq alla Palestina.
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