domenica, marzo 11, 2012
La notizia non è stata divulgata se non da qualche associazione pro-life, e, considerando il complesso degli ordinamenti giuridici e delle pronunce giurisprudenziali in merito, sembra rappresentare una decisione del tutto minoritaria, ma pur essendo controcorrente non è per questo meno degna di attenzione, soprattutto per chi riesce a prescindere da una visione sociologica del diritto.

di Aldo Vitale

Uccr - La notizia non è stata divulgata se non da qualche associazione pro-life, e, considerando il complesso degli ordinamenti giuridici e delle pronunce giurisprudenziali in merito, sembra rappresentare una decisione del tutto minoritaria, ma pur essendo controcorrente non è per questo meno degna di attenzione, soprattutto per chi riesce a prescindere da una visione sociologica del diritto. Lo scorso 17 febbraio 2012, infatti, la Corte Suprema dell’Alabama ha emesso una sentenza che indica una inversione di rotta rispetto al predominante orientamento delle Corti in genere e di quelle statunitensi in particolare. Nella sua pronuncia la Corte Suprema dell’Alabama riconoscendo la risarcibilità per wrongful death (morte indesiderata) dello stillborn son (figlio nato morto), giunge a conclusioni ben oltre ogni aspettativa.

Se, infatti, per un verso non vi è nulla di eclatante nel riconoscere il risarcimento alla madre per la morte indesiderata del proprio feto allorquando questa non abbia deciso liberamente di procedere a IVG, è anche pur vero che la Corte compie un passo avanti basandosi proprio sulle risultanze scientifiche. Ciò che emerge dal ragionamento del giudice statunitense è la circostanza per cui il risarcimento non spetterebbe alla madre, non solo o non tanto perché il feto le appartiene, ma perché il nascituro “si” appartiene, nel senso che esso viene dichiarato centro di imputazione giuridica, poiché viene riconosciuto come persona. Molto interessante sotto questo aspetto è la peculiarità della sentenza che viene costruita dai giudici dell’Alabama in aperta dialettica con quella celebre del caso Roe vs. Wade del 1973 con cui la Corte Suprema degli Stati Uniti dichiarò illegittime tutte le legislazioni dei singoli stati interdittive dell’aborto poiché violanti il supremo diritto alla privacy delle donne.

Il giudice Parker, tra i giudici dell’Alabama che hanno adottato la decisione in oggetto, nel suo approfondito commento alla sentenza medesima, scrive che «ben 38 Stati hanno adottato una legislazione che punisce l’omicidio fetale e ben 28 che tutelato espressamente la vita dal concepimento». Ciò si spiega, secondo Parker, perché gli assunti che sostengono la Roe vs. Wade sono oramai sorpassati dalla stessa medicina e dalla medesima embriologia, essendo trascorsi ben quarant’anni di ricerche, studi ed approfondimenti medici, giuridici e filosofici sul punto. E’ per questo, spiega Parker, che in un’altra pronuncia, Ziade vs. Koch, si precisa che «when an unborn child is killed, a person is killed» ( «quando un nascituro è ucciso, una persona è uccisa»). In ciò consiste il più grande errore della Roe vs. Wade per il giudice Parker, poiché la sentenza che ha legalizzato l’aborto ha concluso che «the unborn have never been recognized in the law as persons in the whole sense» («il nascituro non è mai stato riconosciuto dalla legge come persona in senso pieno»). Parker ricorda, infatti, citando diverse pubblicazioni internazionali di embriologia, che oramai, grazie allo sviluppo notevole della tecnologia degli ultrasuoni la conoscenza scientifica della vita prenatale ha compiuto passi da giganti e, del resto, continua Parker, la comunità scientifica di biologi ed embriologi concorda nel ritenere il concepimento come il momento dell’inizio di una nuova vita; senza dubbio non è una vita già matura, ma è nondimeno una vita umana. Per questo motivo, Parker conclude, «un nascituro è un essere umano unico e individuale dal concepimento e, pertanto, lui o lei ha diritto alla piena tutela da parte della legge in ogni fase del suo sviluppo».

Gli spunti di riflessione potrebbero essere molteplici, sotto vari aspetti (costituzionale, penalistico, medico, epistemologico), ma poiché costretti dalle necessità imperiose dello spazio e del tempo non si può andare oltre, non foss’altro che per rispettare la soglia di attenzione, non si può tuttavia esimere da una considerazione conclusiva. La pronuncia ed il ragionamento ad essa sottostante sembrano, come in effetti sono, del tutto inappuntabili, almeno dal punto di vista bioetico-filosofico, poiché incentrandosi sull’elemento personale del nascituro, cioè sul suo essere persona, contrariamente a quanto sostenuto dalle diffuse tesi riduzioniste di Tooley, Engelhardt, Singer, Hare, Harris, Warren e altri noti filosofi morali appartenenti alla corrente utilitarista che tanto oggi è inconsapevolmente di moda, si è andati al cuore del problema, si è incardinata la decisione sul punto più sicuro, cioè sull’elemento ontologico della questione, che, in sostanza, si propone come non solo elemento fondativo della stessa, ma come orizzonte veritativo per la soluzione del problema. In sostanza il nascituro è una persona; la filosofia lo ha scoperto per prima, la medicina lo sta confermando con il passare del tempo, e il diritto, seppur lentamente, si sta sempre più adeguando. Come ha scritto Romano Guardini, nelle sue dense ed affascinanti riflessioni di esplorazione filosofica sul diritto alla vita prima della nascita, «la persona non è un che di natura psicologica, bensì esistenziale. Non dipende fondamentalmente da età o condizioni psico-fisiche o doti naturali, bensì dall’anima spirituale che è in ogni uomo. La personalità può essere inconscia come nel dormiente; tuttavia, essa è presente e deve essere rispettata. Oppure può non essere ancora completamente sviluppata, come nel bambino; tuttavia essa esige già una tutela morale».

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