Ancora una strage in Siria, con 23 corpi scoperti in una fattoria di Idlib. Anche in questo caso sui cadaveri ci sarebbero segni di torture. Altri 20 civili sarebbero morti nelle ultime ore in altre città del Paese durante gli scontri con i militari.
Radio Vaticana - E mentre anche l’Olanda chiude la propria ambasciata a Damasco, la Turchia si attrezza per accogliere l’enorme flusso di rifugiati che potrebbe riversarsi sul Paese: secondo le previsioni della Mezza Luna Rossa, potrebbero addirittura arrivare in 500 mila. Una crisi, quella siriana, iniziata esattamente un anno fa e che ha causato quasi 10 mila vittime ed oltre 230 mila profughi. Salvatore Sabatino ha chiesto di tracciare un bilancio di quest’anno drammatico a Paolo Branca, esperto di Paesi arabi dell’Università Cattolica di Milano:
R. - E’ stato un anno molto doloroso, in cui un Paese importante del Medio Oriente, assieme ad altri, è stato interessato da questi movimenti di piazza, dove però non si è trovata una via per introdurre un cambiamento. Anche negli altri c’è da dire che le cose non sono state facili: regimi pluridecennali sono andati in crisi, come in Tunisia, in Egitto e in Libia. La Siria, purtroppo, ha delle caratteristiche interne, e probabilmente anche una posizione geopolitica, per cui questa transizione non è stata ancora compiuta.
D. - C’è, poi il grosso problema dell’impasse diplomatica. La comunità internazionale ancora oggi non è unita e non è riuscita a risolvere la repressione in atto…
R. - Penso che questo dipenda da due fattori. Da una parte, la situazione interna della Siria, che è caratterizzata da presenze diverse di tipo etnico e religioso. Dall’altra, la sua posizione strategica: ai confini con Israele, la sua alleanza con l’Iran, che rende molto cauti tutti, soprattutto perché non si sa chi potrebbe prendere il posto di questo regime, una volta che cadesse.
D. - Sul fronte dei profughi, la Turchia ha dato ospitalità ai rifugiati, denunciando fin dall’inizio le violenze in atto. Perché Ankara, che sta giocando un ruolo di primo piano in questa crisi, non è stata ascoltata?
R. - Purtroppo perché, probabilmente, ci sono ancora retaggi del passato che impediscono di riconoscere alla Turchia un ruolo importante, che poi è storico nella regione. D’altra parte, qualcosa di analogo avviene anche con l’Iran. Credo che la miopia, diciamo così, della politica internazionale non riesca a vedere che sul lungo periodo ci sono alcuni Paesi che, storicamente - per la loro posizione, il loro prestigio - sono potenze fondamentali per gli equilibri di quell’area.
D. - E infine, c’è anche una guerra di cifre sulle vittime. Si parla di quasi diecimila morti, ma sarebbero decine di migliaia i siriani scomparsi. Una situazione, dunque, terribile…
R. - Questo, purtroppo, è vero anche per il passato. La Siria è sempre stata un Paese in cui si poteva scomparire nel nulla da un giorno all’altro e neppure le famiglie potevano chiedere notizia dei loro congiunti, proprio per il carattere poliziesco e repressivo del regime. Certo è che la gente comune, pur desiderando liberarsi da questa oppressione, non vorrebbe cadere dalla padella alla brace. Quindi, la deflagrazione di una guerra civile sarebbe ancor più devastante.
D. - Secondo la sua esperienza, quali possono essere le vie d’uscita da questa situazione?
R. - Purtroppo, non ne vedo alcuna all’orizzonte. La mia impressione è che siamo in una fase di stallo in cui, forse - al di là delle dichiarazioni che è inevitabile fare per solidarietà con le vittime, soprattutto civili, di questa mattanza - le idee chiare su come intervenire, se intervenire, e come guidare una transizione sono estremamente rare. Forse, l’unico che potrebbe fare qualcosa, ma molto in ritardo, è lo stesso regime siriano: non subire una transizione, ma guidarla. Al di là della volontà del presidente, comunque, ho paura che il suo entourage, da questo punto di vista, sia assolutamente poco adeguato e disponibile.(ap)
Radio Vaticana - E mentre anche l’Olanda chiude la propria ambasciata a Damasco, la Turchia si attrezza per accogliere l’enorme flusso di rifugiati che potrebbe riversarsi sul Paese: secondo le previsioni della Mezza Luna Rossa, potrebbero addirittura arrivare in 500 mila. Una crisi, quella siriana, iniziata esattamente un anno fa e che ha causato quasi 10 mila vittime ed oltre 230 mila profughi. Salvatore Sabatino ha chiesto di tracciare un bilancio di quest’anno drammatico a Paolo Branca, esperto di Paesi arabi dell’Università Cattolica di Milano:
R. - E’ stato un anno molto doloroso, in cui un Paese importante del Medio Oriente, assieme ad altri, è stato interessato da questi movimenti di piazza, dove però non si è trovata una via per introdurre un cambiamento. Anche negli altri c’è da dire che le cose non sono state facili: regimi pluridecennali sono andati in crisi, come in Tunisia, in Egitto e in Libia. La Siria, purtroppo, ha delle caratteristiche interne, e probabilmente anche una posizione geopolitica, per cui questa transizione non è stata ancora compiuta.
D. - C’è, poi il grosso problema dell’impasse diplomatica. La comunità internazionale ancora oggi non è unita e non è riuscita a risolvere la repressione in atto…
R. - Penso che questo dipenda da due fattori. Da una parte, la situazione interna della Siria, che è caratterizzata da presenze diverse di tipo etnico e religioso. Dall’altra, la sua posizione strategica: ai confini con Israele, la sua alleanza con l’Iran, che rende molto cauti tutti, soprattutto perché non si sa chi potrebbe prendere il posto di questo regime, una volta che cadesse.
D. - Sul fronte dei profughi, la Turchia ha dato ospitalità ai rifugiati, denunciando fin dall’inizio le violenze in atto. Perché Ankara, che sta giocando un ruolo di primo piano in questa crisi, non è stata ascoltata?
R. - Purtroppo perché, probabilmente, ci sono ancora retaggi del passato che impediscono di riconoscere alla Turchia un ruolo importante, che poi è storico nella regione. D’altra parte, qualcosa di analogo avviene anche con l’Iran. Credo che la miopia, diciamo così, della politica internazionale non riesca a vedere che sul lungo periodo ci sono alcuni Paesi che, storicamente - per la loro posizione, il loro prestigio - sono potenze fondamentali per gli equilibri di quell’area.
D. - E infine, c’è anche una guerra di cifre sulle vittime. Si parla di quasi diecimila morti, ma sarebbero decine di migliaia i siriani scomparsi. Una situazione, dunque, terribile…
R. - Questo, purtroppo, è vero anche per il passato. La Siria è sempre stata un Paese in cui si poteva scomparire nel nulla da un giorno all’altro e neppure le famiglie potevano chiedere notizia dei loro congiunti, proprio per il carattere poliziesco e repressivo del regime. Certo è che la gente comune, pur desiderando liberarsi da questa oppressione, non vorrebbe cadere dalla padella alla brace. Quindi, la deflagrazione di una guerra civile sarebbe ancor più devastante.
D. - Secondo la sua esperienza, quali possono essere le vie d’uscita da questa situazione?
R. - Purtroppo, non ne vedo alcuna all’orizzonte. La mia impressione è che siamo in una fase di stallo in cui, forse - al di là delle dichiarazioni che è inevitabile fare per solidarietà con le vittime, soprattutto civili, di questa mattanza - le idee chiare su come intervenire, se intervenire, e come guidare una transizione sono estremamente rare. Forse, l’unico che potrebbe fare qualcosa, ma molto in ritardo, è lo stesso regime siriano: non subire una transizione, ma guidarla. Al di là della volontà del presidente, comunque, ho paura che il suo entourage, da questo punto di vista, sia assolutamente poco adeguato e disponibile.(ap)
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