Società "filtro" usate per ripulire denaro sporco fra la provincia di Modena e la Toscana
Liberainformazione - Continua l’emersione della presenza camorristica nei traffici illeciti nelle ricche regioni del centro nord. Vignola, nel cuore dell’Appennino tosco-emiliano, sarebbe stato il cuore di un complesso sistema di riciclaggio e false fatturazioni. 11 le persone rinviate a giudizio a Firenze dal pm della Direzione distrettuale antimafia Pietro Suchan con l’accusa di associazione a delinquere finalizzata al riciclaggio, truffa, fatturazione per operazioni inesistenti e presentazione di dichiarazioni fiscali infedeli. Due le colonne portanti del sistema ricostruito dalle indagini della Guardia di Finanza del capoluogo toscano, che da ottobre 2004 al maggio del 2005 ha permesso ai clan campani di occultare un giro d’affari di oltre 1,7 milioni di euro: un imprenditore campano, Giovanni Gugliotta di 52 anni, residente a Vignola (Modena), e una ditta di trasporti di Vaglia (Firenze).
Una “società filtro” di proprietà di un imprenditore di Barberino del Mugello, utilizzata per ripulire il denaro sporco: attraverso i soldi provenienti dal pagamento di fatture false, emesse per trasporti mai avvenuti, la ditta lo restituiva “pulito” in appalti – anche questi mai eseguiti – commissionati ad altre imprese. Aziende gestite sempre dall’imprenditore campano, un rodato professionista del settore: già arrestato nel 2007 per traffico di stupefacenti, Gugliotta è considerato dagli inquirenti il perno del sistema di riciclaggio. Facendo da ponte tra l’azienda fiorentina ed esponenti della camorra, riconducibili dalle forze dell’ordine ai clan Ruocco (del nuolano) e Fabbroncino (riconducibile allo storico clan di Nola, mandante dell’omicidio del figlio di Raffaele Cutolo, ndr) e immancabilmente a quello dei Casalesi, l’imprenditore aveva il controllo delle società commissionarie dei trasporti fantasma (con sede a Napoli e a Forlì, ma anche in Repubblica Ceca e in Francia), come delle aziende appaltatrici (i cosiddetti “subvettori”).
Non contenti, i tentacoli della mafia campana, avevano però iniziato a ottenere dall’operazione anche ulteriori guadagni, passando come ormai è risaputo, attraverso le condizioni finanziarie precarie degli imprenditori del nord, che si affidano alla liquidità e alla fatturazione fasulla della “impresa” mafiosa: inizialmente, stando agli accordi ricostruiti nelle indagini della dda, per ogni falso viaggio fatturato, l'imprenditore fiorentino otteneva una commissione che andava tra gli 80 e i 100 euro, oltre al credito iva (pari complessivamente a 300.000 euro) per le fatturazioni a committenti esteri.
Tutto ciò però, non ha impedito il fallimento della sua azienda, anzi. Il guadagno è continuato fino a quando, chiusi i rubinetti che facevano fluire il denaro sporco, subentrata l’estorsione: pur non ricevendo più “commissioni”, la vittima connivente veniva costretta a proseguire col pagamento dei falsi trasporti, per un ammontare di oltre 5,4 milioni di euro. E’ stato proprio il proprietario della ditta fallimentare, infatti, a gennaio del 2006, a denunciare “o sistema” per truffa, facendo scattare le indagini delle Fiamme Gialle. Ma al titolare dell’azienda di Vaglia, continua ad andare male: pur sostenendo di essere stato coinvolto in un caso di riciclaggio che aveva avuto come punto di riferimento proprio la sua impresa, la denuncia non gli ha consentito di essere completamente scagionato dalla partecipazione al meccanismo di “ripulitura” e di reimpiego di capitali illeciti. A decidere sarà ora il Gup.
Ma l’inchiesta toscana ha origini che svelano radici ancora più profonde: già nel 2010 infatti, dalle indagini dell’antimafia toscana, la dda di Bologna coordinata dal procuratore capo Roberto Alfonso assieme al Gico (gruppo investigazione sulla criminalità organizzata) del nucleo di polizia tributaria della Finanza di Bologna e alla squadra mobile di Modena, era giunta all’arresto di 20 persone attive nel modenese, ormai terra succursale di Casal di Principe, come testimoniano l’arresto del capoclan Michele Zagaria (dicembre 2011) e la presenza di membri riconducibili agli Schiavone nella provincia di Reggio Emilia. L’operazione “Pressing”, aveva svelato estorsioni e pizzo ai danni di imprenditori edili e commercianti che arrivavano fino a decine di migliaia di euro. Oltre al racket, ai destinatari del provvedimento di custodia cautelare, sospettati di appartenere al clan campano, era stata contestata l’accusa per lesioni con l’aggravio della partecipazione ad associazione di stampo camorristico.
Sempre nel corso della indagini, coordinate dalla dda di Firenze, sono state denunciate altre 13 persone.
Liberainformazione - Continua l’emersione della presenza camorristica nei traffici illeciti nelle ricche regioni del centro nord. Vignola, nel cuore dell’Appennino tosco-emiliano, sarebbe stato il cuore di un complesso sistema di riciclaggio e false fatturazioni. 11 le persone rinviate a giudizio a Firenze dal pm della Direzione distrettuale antimafia Pietro Suchan con l’accusa di associazione a delinquere finalizzata al riciclaggio, truffa, fatturazione per operazioni inesistenti e presentazione di dichiarazioni fiscali infedeli. Due le colonne portanti del sistema ricostruito dalle indagini della Guardia di Finanza del capoluogo toscano, che da ottobre 2004 al maggio del 2005 ha permesso ai clan campani di occultare un giro d’affari di oltre 1,7 milioni di euro: un imprenditore campano, Giovanni Gugliotta di 52 anni, residente a Vignola (Modena), e una ditta di trasporti di Vaglia (Firenze).
Una “società filtro” di proprietà di un imprenditore di Barberino del Mugello, utilizzata per ripulire il denaro sporco: attraverso i soldi provenienti dal pagamento di fatture false, emesse per trasporti mai avvenuti, la ditta lo restituiva “pulito” in appalti – anche questi mai eseguiti – commissionati ad altre imprese. Aziende gestite sempre dall’imprenditore campano, un rodato professionista del settore: già arrestato nel 2007 per traffico di stupefacenti, Gugliotta è considerato dagli inquirenti il perno del sistema di riciclaggio. Facendo da ponte tra l’azienda fiorentina ed esponenti della camorra, riconducibili dalle forze dell’ordine ai clan Ruocco (del nuolano) e Fabbroncino (riconducibile allo storico clan di Nola, mandante dell’omicidio del figlio di Raffaele Cutolo, ndr) e immancabilmente a quello dei Casalesi, l’imprenditore aveva il controllo delle società commissionarie dei trasporti fantasma (con sede a Napoli e a Forlì, ma anche in Repubblica Ceca e in Francia), come delle aziende appaltatrici (i cosiddetti “subvettori”).
Non contenti, i tentacoli della mafia campana, avevano però iniziato a ottenere dall’operazione anche ulteriori guadagni, passando come ormai è risaputo, attraverso le condizioni finanziarie precarie degli imprenditori del nord, che si affidano alla liquidità e alla fatturazione fasulla della “impresa” mafiosa: inizialmente, stando agli accordi ricostruiti nelle indagini della dda, per ogni falso viaggio fatturato, l'imprenditore fiorentino otteneva una commissione che andava tra gli 80 e i 100 euro, oltre al credito iva (pari complessivamente a 300.000 euro) per le fatturazioni a committenti esteri.
Tutto ciò però, non ha impedito il fallimento della sua azienda, anzi. Il guadagno è continuato fino a quando, chiusi i rubinetti che facevano fluire il denaro sporco, subentrata l’estorsione: pur non ricevendo più “commissioni”, la vittima connivente veniva costretta a proseguire col pagamento dei falsi trasporti, per un ammontare di oltre 5,4 milioni di euro. E’ stato proprio il proprietario della ditta fallimentare, infatti, a gennaio del 2006, a denunciare “o sistema” per truffa, facendo scattare le indagini delle Fiamme Gialle. Ma al titolare dell’azienda di Vaglia, continua ad andare male: pur sostenendo di essere stato coinvolto in un caso di riciclaggio che aveva avuto come punto di riferimento proprio la sua impresa, la denuncia non gli ha consentito di essere completamente scagionato dalla partecipazione al meccanismo di “ripulitura” e di reimpiego di capitali illeciti. A decidere sarà ora il Gup.
Ma l’inchiesta toscana ha origini che svelano radici ancora più profonde: già nel 2010 infatti, dalle indagini dell’antimafia toscana, la dda di Bologna coordinata dal procuratore capo Roberto Alfonso assieme al Gico (gruppo investigazione sulla criminalità organizzata) del nucleo di polizia tributaria della Finanza di Bologna e alla squadra mobile di Modena, era giunta all’arresto di 20 persone attive nel modenese, ormai terra succursale di Casal di Principe, come testimoniano l’arresto del capoclan Michele Zagaria (dicembre 2011) e la presenza di membri riconducibili agli Schiavone nella provincia di Reggio Emilia. L’operazione “Pressing”, aveva svelato estorsioni e pizzo ai danni di imprenditori edili e commercianti che arrivavano fino a decine di migliaia di euro. Oltre al racket, ai destinatari del provvedimento di custodia cautelare, sospettati di appartenere al clan campano, era stata contestata l’accusa per lesioni con l’aggravio della partecipazione ad associazione di stampo camorristico.
Sempre nel corso della indagini, coordinate dalla dda di Firenze, sono state denunciate altre 13 persone.
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