giovedì, marzo 29, 2012
"Società, cultura, fede": sono i tre termini che guideranno, questa sera a Palermo, il cardinale Gianfranco Ravasi nel suo discorso di apertura della tappa siciliana del "Cortile dei Gentili".

Radio Vaticana - Il presidente del Pontificio Consiglio della Cultura presiederà l'inizio dei lavori nel Duomo di Monreale, in un appuntamento dal titolo programmatico: “Cultura della legalità e società multireligiosa”. Un titolo che intende rilanciare, ha ricordato lo stesso cardinale Ravasi, l’impegno della Chiesa contro l’illegalità, nello spirito del Cortile dei Gentili: ovvero, il dialogo interculturale tra credenti, agnostici ed atei. Ne parla, al microfono di Fabio Colagrande, mons. Antonino Raspanti, vescovo di Monreale e coordinatore dell’evento: ascolta

R. - Cinquant’anni fa i credenti - quanto meno la Chiesa - e una buona parte di non credenti erano su sponde abbastanza diverse. Molti non credenti - chi anticamente combatteva la mafia - spesso non erano tra le fila di vescovi o sacerdoti, e criticavano la Chiesa perché non era così netta nella condanna. Lentamente - penso ad alcune figure-chiave in questo cammino, ossia Giovanni Paolo II nel famoso "grido di Agrigento", il cardinale Pappalardo e infine don Pino Puglisi - la situazione è cambiata: ci si è trovati pian piano alleati, uno accanto all’altro, si era parte di una lotta contro grandi nemici, in questo caso le mafie. "Nemico", da un punto di vista civile, significa l’anti-Stato perché è proprio un sistema e non una semplice delinquenza. E’ un sistema di delinquenza che si pone, da un lato, come alternativa totalmente contraria allo Stato. Dall’altro, la mafia, come sistema, è anche anti-umana e anti-religiosa. Si è perciò compreso quanto fosse necessario stare insieme per combattere lo stesso male - stando quindi dalla stessa parte - e si è finiti per divenire alleati, instaurando anche un pieno dialogo. In che misura è possibile stabilire questo, addirittura tra società e culture diverse, tra molteplici tradizioni culturali? Facciamo un solo esempio: combattere questo tipo di criminalità a latitudini diverse, che vanno dalla Cina alla Russia, dal Porto Rico alla Colombia, alla nostra Sicilia, in Italia - con sistemi giuridici totalmente diversi e talvolta incompatibili tra loro - diventa impossibile. Se invece si instaurano precisi luoghi di dialogo e di intesa, che provino un’assoluta compatibilità, ritengo che tutto questo possa divenire più semplice. Siano anche noi uomini di Chiesa, insieme ai non credenti, che dobbiamo favorire questa possibilità di intese e quindi di compatibilità tra i sistemi.

D. - Nel momento, però, in cui gli uomini di Chiesa affrontano il tema dell’illegalità e del suo contrasto, significa anche che devono, in qualche modo, rilanciare e rinnovare il loro impegno per la legalità. E’ una sfida, questa?

R. - Certo. Questo lo abbiamo ribadito più volte sul piano dei vertici. Il passo decisivo che oggi mi sembra importante fare - che viene fatto qui e lì ma dovrebbe esser fatto invece con più decisione - è nella quotidianità della pastorale parrocchiale e nella religiosità popolare. E’ proprio qui che i parroci, nei comitati dei festeggiamenti e nelle feste patronali, sia nei paesi più sperduti e sia nei quartieri delle grandi città, devono mettere dei punti fermi e dire con estrema chiarezza che questa prassi non va bene, che va bocciata, perché c’è un’assoluta incompatibilità radicale e frontale tra l’aderire a questo tipo di criminalità organizzata - che si chiama mafia - e il Vangelo di Gesù Cristo. Se noi giudichiamo la mafia anti-umana oltre che anti-civile e anti-Stato, allora è del tutto incompatibile con il Vangelo. Questo significa non soltanto un impegno preciso da parte nostra in tutte le ramificazioni delle nostre organizzazioni al nostro interno, ma vuol dire anche una garanzia di lealtà chiara e precisa nei confronti delle società civili dei vari Stati, con le quali ci poniamo come alleati e garanti di una piena lealtà, trasparenza e osservanza delle leggi. (vv)

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