Anche in Italia è arrivata un nuovo tipo di dipendenza, quella da sovraesposizione da internet.
Uccr - Una forma che porta a ”sentimenti compulsivi, isolamento sociale, dipendenza patologica e perdita di contatti reali”, questo perché l’uomo secolarizzato non può che divinizzare tutto, esasperare tutto. La risposta al senso della vita lo si cerca “a tentoni” ovunque, finendo per incaponirsi su cose che non possono rispondere. Oggi c’è l’illusione che la risposta possa arrivare dalla scienza, dalla tecnologia, dal moltiplicarsi di conoscenti sui social network. Ma, come accade seguendo tutti gli idoli, il danno è ancora maggiore. Lo ha spiegato con lucidità Carlo Buttaroni, presidente dell’Istituto di ricerca Tecnè, sul quotidiano “L’Unità”: «Ci siamo illusi che la tecnologia sarebbe stata capace di dare risposte alle nostre esigenze di relazioni. Un’aspettativa che abbiamo pagato a caro prezzo. Perché insieme alla crescita della complessità tecnologica si è diffusa anche una cultura del risparmio emotivo che ha generato nuove forme di disagio sociale legate alla solitudine, all’apatia, alla malinconia [...]. La solitudine dell’io-globale nasce dall’aver creduto che medium potenti avrebbero risparmiato la fatica della ricerca interiore e della relazione con l’altro». L’aver generato tante monadi impaurite, è il frutto più letale dei Paesi secolarizzati e relativisti, dove oggi più di un terzo degli abitanti (Europa occidentale) soffre di disturbi psicologici. L’uomo che ha rinnegato un senso ultimo alla vita non riesce più nemmeno a dare un senso adeguato nemmeno al presente, che diventa una serie slegata di infiniti istanti: «Tutto ciò», continua il ricercatore, «ha ricadute nella capacità di percepire gli eventi della vita come una trama dotata di senso, mentre si affermano esperienze di vita in cui in ogni istante è autonomo, separate dal mondo, con momenti che non si legano a quelli che li hanno preceduti e a quelli che li seguiranno. La vita è percepita come una serie di tante esperienze parallele, che non s’intrecciano e non si legano, che non costituiscono una narrazione».
Si scorge da queste parole l’inconsapevole parallelo con quanto affermato un anno fa da Benedetto XVI: «La presenza in questi spazi virtuali può essere il segno di una ricerca autentica di incontro personale con l’altro se si fa attenzione a evitarne i pericoli, quali il rifugiarsi in una sorta di mondo parallelo o l’eccessiva esposizione al mondo virtuale. Nella ricerca di condivisione, di “amicizie”, ci si trova di fronte alla sfida dell’essere autentici, fedeli a se stessi, senza cedere all’illusione di costruire artificialmente il proprio profilo pubblico». Tornando all’analisi moderna del ricercatore italiano, egli continua la sua sottolineatura del disagio vissuto dall’uomo moderno: «quello che conta è vivere ogni momento di vita in modo funzionale, adeguato alle esigenze che quel momento richiede. Tutto questo mette in crisi la dimensione dell’identità degli individui e la possibilità di sviluppare progetti di vita, perché progettare significa selezionare nel presente ciò che è coerente con il passato e soprattutto con le attese e gli obiettivi futuri. E tale selezione non può avvenire in una concezione del tempo in cui ha senso solo ciò che offre il presente e un determinato contesto, dove tutto prende forma in un universo funzionale e stabilizzato, dove cresce, per dirla con Bauman, “la solitudine del cittadino globale”, la sua insicurezza di fronte alle nuove incertezze. Ed è paradossale trovarsi costantemente esposti al rischio della perdita di se e del senso della vita, nello stesso istante in cui il pensiero scientifico insegue l’immortalità».
Buttaroni non offre come soluzione il ritorno al mistero della realtà, al riavvicinarsi alla proposta cristiana. Egli, dopo aver analizzato bene la situazione attuale, parla di una vaga esigenza di «cambio di vita e di prospettiva verso un nuovo ordine di valori e di riferimenti. Si sente la necessità di parole che spieghino la vita che viene avanti, la solitudine e la sofferenza dell’altro, in una visione che restituisca significato alla vita e allo stare insieme [...] Un “nuovo inizio”» che unisca l’uomo «ai suoi simili all’interno di un progetto e una trama dotata di senso che è appunto la storia». Un ipotetico scenario, dunque, in cui l’uomo possa riposare sentendosi parte di una comunità e potendo dare un senso compiuto alla vita e alla storia. Ma questo, per noi cristiani, non è forse quello che già viviamo nella Chiesa? Anche Leopardi, anche Pascoli desideravano la stessa cosa e il teologo Luigi Giussani -commentando i loro poemi- ha scritto giustamente: «Il Verbo si è fatto carne, venne fra i suoi e i suoi non se ne sono accorti. Ma l’uomo senza quella risposta rimane nella vita ultimamente irresoluto, anche se febbrilmente pieno di iniziative, a guardia del nullo abisso [...]. Nel grande enigma il terribile frutto è la solitudine, e nella solitudine la paura». La soluzione all’enigma, cioè all’esistenza senza Risposta ultima, non è creare infiniti rapporti virtuali, non è stringersi impauriti gli uni agli altri -come “I due orfani” di Pascoli- per sperimentare «l’unico tepore che può attutire il gelo dell’enigma universale», come scrive ancora Giussani. Il cristiano può offrire come unica risposta allo smarrito uomo moderno la stessa che ha dato Gesù ai primi due discepoli: «Venite e vedrete» (Gv 1, 38).
Uccr - Una forma che porta a ”sentimenti compulsivi, isolamento sociale, dipendenza patologica e perdita di contatti reali”, questo perché l’uomo secolarizzato non può che divinizzare tutto, esasperare tutto. La risposta al senso della vita lo si cerca “a tentoni” ovunque, finendo per incaponirsi su cose che non possono rispondere. Oggi c’è l’illusione che la risposta possa arrivare dalla scienza, dalla tecnologia, dal moltiplicarsi di conoscenti sui social network. Ma, come accade seguendo tutti gli idoli, il danno è ancora maggiore. Lo ha spiegato con lucidità Carlo Buttaroni, presidente dell’Istituto di ricerca Tecnè, sul quotidiano “L’Unità”: «Ci siamo illusi che la tecnologia sarebbe stata capace di dare risposte alle nostre esigenze di relazioni. Un’aspettativa che abbiamo pagato a caro prezzo. Perché insieme alla crescita della complessità tecnologica si è diffusa anche una cultura del risparmio emotivo che ha generato nuove forme di disagio sociale legate alla solitudine, all’apatia, alla malinconia [...]. La solitudine dell’io-globale nasce dall’aver creduto che medium potenti avrebbero risparmiato la fatica della ricerca interiore e della relazione con l’altro». L’aver generato tante monadi impaurite, è il frutto più letale dei Paesi secolarizzati e relativisti, dove oggi più di un terzo degli abitanti (Europa occidentale) soffre di disturbi psicologici. L’uomo che ha rinnegato un senso ultimo alla vita non riesce più nemmeno a dare un senso adeguato nemmeno al presente, che diventa una serie slegata di infiniti istanti: «Tutto ciò», continua il ricercatore, «ha ricadute nella capacità di percepire gli eventi della vita come una trama dotata di senso, mentre si affermano esperienze di vita in cui in ogni istante è autonomo, separate dal mondo, con momenti che non si legano a quelli che li hanno preceduti e a quelli che li seguiranno. La vita è percepita come una serie di tante esperienze parallele, che non s’intrecciano e non si legano, che non costituiscono una narrazione».
Si scorge da queste parole l’inconsapevole parallelo con quanto affermato un anno fa da Benedetto XVI: «La presenza in questi spazi virtuali può essere il segno di una ricerca autentica di incontro personale con l’altro se si fa attenzione a evitarne i pericoli, quali il rifugiarsi in una sorta di mondo parallelo o l’eccessiva esposizione al mondo virtuale. Nella ricerca di condivisione, di “amicizie”, ci si trova di fronte alla sfida dell’essere autentici, fedeli a se stessi, senza cedere all’illusione di costruire artificialmente il proprio profilo pubblico». Tornando all’analisi moderna del ricercatore italiano, egli continua la sua sottolineatura del disagio vissuto dall’uomo moderno: «quello che conta è vivere ogni momento di vita in modo funzionale, adeguato alle esigenze che quel momento richiede. Tutto questo mette in crisi la dimensione dell’identità degli individui e la possibilità di sviluppare progetti di vita, perché progettare significa selezionare nel presente ciò che è coerente con il passato e soprattutto con le attese e gli obiettivi futuri. E tale selezione non può avvenire in una concezione del tempo in cui ha senso solo ciò che offre il presente e un determinato contesto, dove tutto prende forma in un universo funzionale e stabilizzato, dove cresce, per dirla con Bauman, “la solitudine del cittadino globale”, la sua insicurezza di fronte alle nuove incertezze. Ed è paradossale trovarsi costantemente esposti al rischio della perdita di se e del senso della vita, nello stesso istante in cui il pensiero scientifico insegue l’immortalità».
Buttaroni non offre come soluzione il ritorno al mistero della realtà, al riavvicinarsi alla proposta cristiana. Egli, dopo aver analizzato bene la situazione attuale, parla di una vaga esigenza di «cambio di vita e di prospettiva verso un nuovo ordine di valori e di riferimenti. Si sente la necessità di parole che spieghino la vita che viene avanti, la solitudine e la sofferenza dell’altro, in una visione che restituisca significato alla vita e allo stare insieme [...] Un “nuovo inizio”» che unisca l’uomo «ai suoi simili all’interno di un progetto e una trama dotata di senso che è appunto la storia». Un ipotetico scenario, dunque, in cui l’uomo possa riposare sentendosi parte di una comunità e potendo dare un senso compiuto alla vita e alla storia. Ma questo, per noi cristiani, non è forse quello che già viviamo nella Chiesa? Anche Leopardi, anche Pascoli desideravano la stessa cosa e il teologo Luigi Giussani -commentando i loro poemi- ha scritto giustamente: «Il Verbo si è fatto carne, venne fra i suoi e i suoi non se ne sono accorti. Ma l’uomo senza quella risposta rimane nella vita ultimamente irresoluto, anche se febbrilmente pieno di iniziative, a guardia del nullo abisso [...]. Nel grande enigma il terribile frutto è la solitudine, e nella solitudine la paura». La soluzione all’enigma, cioè all’esistenza senza Risposta ultima, non è creare infiniti rapporti virtuali, non è stringersi impauriti gli uni agli altri -come “I due orfani” di Pascoli- per sperimentare «l’unico tepore che può attutire il gelo dell’enigma universale», come scrive ancora Giussani. Il cristiano può offrire come unica risposta allo smarrito uomo moderno la stessa che ha dato Gesù ai primi due discepoli: «Venite e vedrete» (Gv 1, 38).
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