martedì, marzo 20, 2012
La storia delle tre donne calabresi testimonia come sia possibile sconfiggere un sistema criminale che sembra invincibile

di Paola Bisconti

Il 21 marzo si celebrerà la “Giornata della memoria e dell’impegno”. Don Luigi Ciotti, rappresentante dell’associazione “Libera”, leggerà un lungo elenco composto dai nomi delle vittime della mafia. La circostanza permetterà di ricordare anche Lea Garofalo, Maria Concetta Cacciola e Giuseppina Pesce: a febbraio il mensile “I siciliani giovani” ha dedicato alle tre donne calabresi la copertina e un approfondito articolo. L’8 marzo poi Matteo Cosenza, il direttore del “Quotidiano di Calabria”, ha reso un omaggio a coloro che si sono schierati in prima persona contro la ‘ndrangheta. Già nell’editoriale del 13 febbraio aveva proposto ai lettori di aderire in occasione della festa delle donne all’iniziativa “Tre foto e una mimosa”: il forte messaggio è stato accolto con centinaia di adesioni, dimostrazione della mobilitazione dei calabresi nella lotta contro la mafia.

Giuseppina Pesce è l’unica superstite di questa battaglia. È la figlia del boss Salvatore Pesce e dal 14 ottobre del 2010 ha iniziato a collaborare con lo Stato. Ora, infatti, vive in una località protetta e a breve incontrerà nuovamente i giudici per raccontare tutto quello di cui è a conoscenza riguardo alle azioni illecite della cosca che agisce nella Piana di Gioiatauro. Le prime confessioni di Giuseppina hanno permesso l’arresto di undici persone, fra cui anche la madre e la sorella. La sua battaglia non si arresta nonostante le incertezze e le titubanze dovute dalla paura di possibili ritorsioni contro i suoi figli.

Prima di diventare una collaboratrice di giustizia Giuseppina viveva a Rosarno, lo stesso paese dove risiedeva Maria Concetta Cacciola, sua cugina, nonché figlia di Michele Cacciola, cognato del boss Giorgio Bellocco, e la moglie di Salvatore Figliuzzi, detenuto per associazione mafiosa. Le sue confessioni hanno aperto l’operazione “Califfo” coordinata dalla Procura di Palmi e dalla DDA di Reggio Calabria che ha visto l’arresto di Anna Rosalba Lazzaro, la madre, e Giuseppe Cacciola, il fratello, accusati di istigazione al suicidio. Il 20 agosto del 2011 infatti, Maria Concetta ha scritto una lettera e ha registrato un nastro dove ritrattava quanto aveva svelato alle forze armate: subito dopo è stata costretta ad ingerire dell’acido muriatico.

L’indagine aperta subito dopo il decesso fa emergere un quadro drammatico e violento, in cui Maria Concetta risulta una vittima di un meccanismo ingiusto: le confessioni rilasciate ai carabinieri l’avevano fatta entrare in un programma di protezione che però la allontanava dai suoi figli; la scelta dei giudici di affidare i ragazzi ai nonni non tranquillizzava la donna che è stata nascosta prima a Cosenza, poi a Bolzano e infine a Genova; qui ha deciso di telefonare ai suoi genitori, che l’hanno raggiunta e riportata a casa, dov’è stata segregata e obbligata ad uccidersi.
Sia Giuseppina Pesce che Maria Concetta Cacciola hanno raccontato, fra le altre cose, del traffico di armi e di stupefacenti gestito dalle ‘ndrine e hanno citano il nome di Saverio Marafioti, il muratore che costruiva i bunker a prova di bomba dotati di ogni comfort.

Un’altra vittima del proprio coraggio è Lea Garofalo. Dal 2002 fino al 2006 ha collaborato con lo Stato e la sua testimonianza ha permesso di conoscere i motivi della faida interna tra la sua famiglia e quella del suo compagno. Si tratta di una lotta che ha procurato la morte del fratello Floriano Garofalo, il boss di Petilia Policastro, che controllava l’attività malavitosa di Milano e che nel 2005 è stato assassinato da Giuseppe Cosca, il cognato di Lea, detto “Smith”. Il 24 novembre del 2009 nel capoluogo lombardo Lea è stata rapita insieme alla figlia Denise, che aveva raggiunto la città perché nell’appartamento di Viale Martello si sarebbe dovuta svolgere una riunione di famiglia per decidere dove la ragazza avrebbe proseguito gli studi dopo il diploma. Mentre Lea percorreva corso Sempione, Massimo Sabatino e Carmine Venturino l’hanno rapita caricandola in un furgone: con loro avevano una pistola e 50 litri di acido. Per ore l’ex compagna di Carlo Cosco è stata torturata, poi le hanno sparato e il corpo è stato sciolto nell’acido in una zona del comune di San Fruttuoso, a Monza.

Ricordare le tre donne è senza dubbio un atto di rispetto nei confronti di tutti coloro che credono che un nuovo mondo sia possibile. La volontà di scardinare un sistema così forte come quello mafioso è un gesto di coraggio che merita attenzione e può servire a sensibilizzare le coscienze di chi crede che sia impossibile vincere questa battaglia.

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