lunedì, marzo 26, 2012
Cosa nostra e la stagione delle stragi, dialoghi e depistaggi

Liberainformazione - Ci sono vicende che vengono in queste settimane rilette, viste sotto la luce che esce fuori dai nuovi capitoli di indagine su quella che è oramai certo che ci fu, e cioè la trattativa tra Stato e Mafia. Una di queste vicende è clamorosa, vede ancora una volta uomini dei servizi che si sono mossi molto vicino, vicinissimo, a Paolo Borsellino. Una storia che è raccontata da alcuni testimoni, amici e collaboratori di Borsellino, e che si trova negli atti sia della indagine palermitana che in quella della Procura di Caltanissetta che si stanno occupando non solo della strage di via d’Amelio del 19 luglio 1992 e della cosiddetta “trattativa”, ma anche delle interferenze che una parte della politica siciliana esercitava in quell’epoca nei confronti di chi alzava il coperchio delle pentole delle commistioni tra mafia e istituzioni.

Uno di quelli che frequentava di più Paolo Borsellino sarebbe stato un funzionario dell’allora alto commissariato per la lotta alla mafia, tale Angelo “Ninni” Sinesio. I magistrati che lavoravano con Borsellino spesso lo vedevano presente nell’ufficio del procuratore già quando questi guidava la Procura di Marsala. Una presenza diventata “familiare”, perché il procuratore Borsellino sarebbe stato solito metterlo a suo agio. Sinesio oggi ha fatto carriera, è diventato prefetto, è stato prefetto vicario a Catania quando prefetto era l’attuale ministro dell’Interno, Anna Maria Cancellieri, che lo ha voluto fino a febbraio scorso al Viminale a capo della sua segreteria tecnica ed oggi è commissario straordinario per l’emergenza edilizia delle carceri. Carriera, quella di Sinesio, che non è stata fermata nemmeno dal fatto che sarebbe stato sospettato addirittura di essere stato la “gola profonda” che avrebbe avvisato Bruno Contrada, il numero due del Sisde, delle indagini sul suo conto. Sinesio è stato sentito nel processo contro Contrada, ha detto che il “segreto” sul super agente dei servizi lo aveva confidato ad un suo superiore, il dott. De Luca, e che semmai era stato questo a passare l’informazione a Contrada che così seppe che lo stavano andando ad arrestare. Nella sentenza che ha condannato Bruno Contrada la vicenda è bene raccontata, Sinesio aveva avuto l’informazione parlando con uno dei magistrati più vicini a Paolo Borsellino, la dott. Alessandra Camassa, nei giorni seguenti la strage di via D’Amelio. Il pm Camassa conosceva Sinesio per averlo visto spesso con Borsellino, dunque era una persona della quale era indotta a fidarsi, ma quel giorno in cui parlarono di Contrada la reazione di Sinesio sarebbe stata anomala, avrebbe avuto come una reazione nervosa, un conato di vomito, si allontanò dalla stanza del magistrato per andare in bagno, per poi tornare subito dopo. Di Sinesio scrive anche Contrada nel suo memoriale, l’ex dirigente dei servizi, condannato per mafia, lo indica come la persona che gli disse delle indagini sul suo conto.

Oggi emergono altri particolari, che vengono letti sotto diversa luce proprio per il “marciume” che va emergendo attorno alle strategie stragiste mafiose. E ancora una volta si sente parlare di questo Sinesio. Questi avrebbe cercato in tutti i modi di sapere a cosa si stava interessando Borsellino nei giorni in cui la mafia, e forse non solo la mafia, decidevano di eliminarlo per sempre. Incontrava i magistrati più vicini a Borsellino presentandosi addolorato, sconfortato, per quello che era successo a via D’Amelio, e chiedeva, chiedeva se Borsellino si occupava di politici, di politici e imprenditori agrigentini, sembra che i suoi interessi erano puntati a conoscere se Borsellino indagava sul ministro Mannino e sull’imprenditore Salamone, uno degli imprenditori che saltava fuori dalle indagini sulla tangentopoli siciliana. Interessi pressanti, costanti, tanto insistenti che alla fine hanno suscitato qualche perplessità nei suoi interlocutori, alla fine è uscito di scena.

Il nome di Sinesio torna d’attualità in questi giorni mentre si apprende, dalla testimonianza del questore Rino Germanà, il poliziotto sfuggito miracolosamente ad un agguato mafioso a Mazara del Vallo, il 14 settembre 1992, che i vertici della Polizia, all’epoca, si interessavano alle indagini di Germanà sul conto dei ministro Mannino e lo stesso ministro cercò in tutti i modi di parlare con Germanà. Germanà da dirigente della Criminalpol siciliana stava eseguendo una delega di indagini della Procura di Marsala sul conto di Mannino e di uomini della politica a lui vicini. Germanà un giorno si vide convocare a Roma dal vice capo della Polizia, prefetto Luigi Rossi, che gli chiese il perché di quegli accertamenti, poi fu Mannino stesso a cercare di avere un incontro con lui, successivamente ancora avvenne l’incredibile trasferimento di Germanà incaricato dal capo della Polizia dell’epoca, prefetto Parisi, di dirigere il commissariato di Mazara. Poche settimane dopo il suo “ritorno” a Mazara (Germanà aveva diretto anni prima il commissariato, poi era diventato dirigente della Squadra Mobile di Trapani, e il ritorno a Mazara rappresentava un passo indietro nella carriera) trovò sul lungomare di Tonnarella i più pericolosi killer della mafia ad attenderlo, Matteo Messina Denaro, Leoluca Bagarella e Giuseppe Graviano, per fortuna non seppero usare il kalashnikov. Un trasferimento anomalo, così fu definito dagli stessi pm del relativo processo.

Tra morti ammazzati, stragi, e indagini, c’erano troppi uomini a muoversi nell’ombra. Paolo Borsellino aveva avuto sentore di tutto questo, restando scosso, tanto da piangere a dirotto incontrando due suoi fidati pm, Alessandra Camassa e Massimo Russo, dicendo loro, tra le lacrime, che “un amico lo aveva tradito”.

Rino Giacalone

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