venerdì, marzo 02, 2012
Ha provocato una levata di scudi e sollevato più di una critica il progetto della costruzione di un porto in acque profonde di fronte all’arcipelago turistico di Lamu, nell’Est del Kenya, finalizzato all’esportazione del petrolio sud-sudanese.

Misna -A partire da oggi, la cerimonia per la posa della prima pietra, sancirà ufficialmente l’avvio ai lavori di un progetto gigantesco quanto ambizioso del costo stimato in circa 18 miliardi di euro, che collegherà la costa keniana alle capitali di Juba, in Sud Sudan, e Addis Abeba, in Etiopia. Il porto costituirà infatti il punto di arrivo di un ‘corridio’ di trasporti costituito da una ferrovia, un’autostrada e un oleodotto che consentirà al greggio dei giacimenti sud sudanesi di accedere al mare senza dover passare sul territorio di Khartoum, dietro versamento di onerosi dazi.

È per questo che – nonostante le resistenze delle popolazioni locali che temono di perdere l’accesso a territori ancestrali e le remore degli ambientalisti che vedono minacciato un ecosistema di mangrovie e barriera corallina dichiarato Patrimonio mondiale dell’umanità dall’Unesco – il governo di Nairobi ha già lanciato un’asta per il finanziamento della prima fase dei lavori.

Se pone timori di natura ambientale, il progetto suscita però forti preoccupazioni nei governanti keniani soprattutto in materia di sicurezza, correndo pericolosamente al fianco di zone minate dalle violenze claniche e dall’instabilità politica. È in questo contesto che va interpretata – secondo diversi analisti – l’offensiva militare ‘Linda Nchi’ (Proteggere la nazione) avviata da Nairobi nell’ottobre scorso nelle regioni del basso e medio Juba.

“Se il Kenya si è deciso ad intervenire in Somalia, secondo un piano militare che – come hanno svelato alcuni cablogrammi resi noti da Wikileaks – era stato approvato e studiato a tavolino già nel 2010, è per difendere i suoi interessi e la stabilità nel nord del paese” sottolinea Romain Lalanne, consulente di politica estera al quotidiano francese ‘Le Nouvel Observateur’. “Non si lancia un’operazione militare così impegnativa dalla sera alla mattina” insiste l’analista, per cui il fine ultimo del Kenya è “la creazione di una zona cuscinetto, lo ‘Jubaland’, da affidare a qualche alleato locale, che separi i territori in preda di violenze intorno a Mogadiscio, dal proprio confine settentrionale”.

Tra i nomi più gettonati – sui siti della diaspora somala che segue con vibrante partecipazione la rinnovata attenzione internazionale sul conflitto nel Corso d’Africa – per il controllo di questa nuova ‘entità’ territoriale che avrebbe come capitale il redditizio scalo di Kismayo, circolano quello di Mohamed Abdi Mohamed ‘Ghandi’ ex ministro somalo della Difesa, e quello di Ahmed Mohamed Islam ‘Madobe’ alla guida del movimento ‘Ras Kamboni. Entrambi stretti alleati del governo del Kenya.

Sarebbe la prospettiva di una regione somala controllata da Nairobi con a capo uno dei due leader, entrambi appartenenti al clan Ogadeni maggioritario nella regione somala dell’Etiopia, ad aver spinto Addis Abeba a partecipare alla nuova offensiva dispiegano i propri militari nella regione di Gedo. “Per Meles Zenawi è un’occasione ghiotta, che contempla come obiettivo quello di schiacciare una volta per tutte, l’insurrezione degli ‘Al Shabaab’ sostenuti dall’acerrimo nemico eritreo” osserva ancora Lalanne – a dimostrazione del fatto che, ancora una volta, quella in corso in Somalia è una guerra per procura”.

Intanto, a Lamu, gli abitanti sono scesi in piazza con striscioni e manifesti per contrastare la cerimonia di inaugurazione dei lavori. “La nostra terra, i nostri diritti” scandiscono i manifestanti. Alle spalle il più antico insediamento e testimonianza architettonica della cultura swahili, davanti – almeno fino ad oggi – un piccolo porticciolo di pescatori.

[AdL]

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