lunedì, marzo 05, 2012
Christophe Le Bec scrive su "Jeune Afrique": «Accrescere le entrate pubbliche, creare posti di lavoro nazionali, compresi posti direttivi, imporre le imprese locali[...]. Gli Stati hanno deciso di riprendere la gestione dei loro giacimenti per farne profittare le popolazioni».

GreenReport - Secondo il recente rapporto "African Mining Investment Environment Survey 2011" dell' Ernst & Young Africa Business Centre, i paesi con "legislazioni fluttuanti" fanno fuggire gli investimenti e sono meno produttivi, «I gruppi minerari che investono in Africa sono innanzitutto sensibili a due rischi: l'instabilità politica e il nazionalismo». E Le Bec, inviato al summit minerario africano che si è svolto a febbraio a Città del Capo, scrive;:«Lo studio di Ernst & Young sull'attrattività di 13 Stati Africani dimostra che quelli che hanno rassicurato su questi due punti hanno aumentato la loro produzione di minerali. I loro progetti durano a volte decine di anni, i gruppi vogliono una regolamentazione stabile anche se implica un livello elevato di tasse». Il rapporto di Ernst & Young fa l'esempio di quella che considera una politica mineraria equilibrata:il Botswana che ha adottato un aumento progressivo (fino al 40%) della partecipazione statale nei progetti minerari, senza che questo facesse scappare gli investitori stranieri che tra il 2007 e il 2010 hanno sborsato a questo Paese dell'Africa australe 377 milioni di euro all'anno. Anche il vicino Zambia, nonostante tasse minerarie abbastanza elevate (soprattutto il 10,4% d'imposte sulla massa salariale), attira gli investitori e nel 2011 la sua produzione mineraria è aumentata del 15,7%, il record africano.

Invece, nonostante l'aumento della richiesta di materie prime, gli Stati in cui i regolamenti minerari sono poco chiari hanno dei problemi. La Namibia, che sta rivedendo la sua politica mineraria, con tasse in forte rialzo ed una maggiore attenzione ai diritti delle comunità locali ed alla salvaguardia dell'ambiente, ha accusato un calo produttivo del 45% nel 2011. Lo Zimbabwe, che con le sue "nazionalizzazioni" è diventato l'incubo delle multinazionali minerarie, nel 2010 aveva estratto il 10% di minerali in meno che nel 2009.

Poi ci sono i due "scandali geologici" dell'Africa: la Guinea e la Repubblica democratica del Congo (Rdc), che hanno le risorse minerarie più ambite ed importanti, ma che non ne riescono a trarre un vero beneficio. Il sudafricano Otsile Matlou, un avvocato di Edward Nathan Sonnenbergs, spiega: «Sono osservati con la lente d'ingrandimento dai gruppi internazionali, ma sono considerati più come zone di esplorazione che di sfruttamento». Nonostante l'instabilità, la guerriglia, le bande armate che gestiscono le miniere abusive , La Rdc tra il 2007 e il 2010, ha attirato 5,4 miliardi di investimenti diretti stranieri all'anno, ma questo non ha ancora comportato un boom della produzione mineraria, che anzi è calata dello 0,2% nel 2010. Anche la Guinea, malgrado le sue risorse che fanno gola ai pretendenti cinesi, russi, europei ed americani, tra il 2007 e il 2010 (un periodo segnato da scontri di piazza, golpe militari ed instabilità politica) ha avuto solo 900 milioni di euro di investimenti stranieri diretti.

Ma quello che preoccupa le multinazionali minerarie è soprattutto quello che "Jeune Afrique" descrive come «Un vento di patriottismo economico che soffia sulle miniere africane. Al summit Mining Indaba di Città del Capo, dove dal 6 a 9 febbraio si sono incontrati 7.200 "decisori" del mondo minerario, sono risuonati termini come «Revisione contrattuale», «Africanizzazione» e anche «Nazionalizzazione». Alla fine della conferenza i ministri africani, in particolare del Sudafrica e della Rdc, hanno rivolto parole durissime verso gli investitori minerari, indicati come «Cattivi allievi dello sviluppo locale».

Il boom dei prezzi dei minerali iniziato nel 2009 ha reso ancora più scandaloso lo "scandalo geologico" del continente africano per gli Stati più ricchi di risorse. I governi, ma anche i decision maker africani del settore, non nascondono la loro indignazione. Il senegalese Mouhamadou Niang, a capo della divisione industria e servizi della Banque africaine de développement, ha detto: «Il nostro continente detiene di un terzo delle riserve mondiali di minerali. Una proporzione che aumenta a più del 70% per alcune risorse come il ferro, il manganese, il platino o la bauxite. Malgrado questo potenziale, l'Africa rappresenta meno del 10% della produzione mineraria mondiale». Anche il ghaniano Sam Jonah, che fino al 2006 ha presieduto l'AngloGold Ashanti e attualmente consigliere dei presidenti sudafricano Jacob Zuma e nigeriano Goodluck Jonathan, condivide questa rabbia montante verso la colonizzazione mineraria: «Il Ghana produce oro da circa un secolo... E nonostante questa lunga esperienza le miniere pesano per meno del 2% nell'economia nazionale!».

La maggioranza dei gruppi minerari intervenuti a Mining Indaba sembrano comprendere queste nuove esigenze di governi che hanno a che fare con un'opinione pubblica sempre più consapevole del saccheggio delle risorse neo-coloniale e le primavere arabe e gli scioperi e le elezioni nei Paesi dell'Africa australe sembrano essere state per le multinazionali un forte campanello di allarme. John Ffooks, un avvocato britannico specializzato in contratti minerari ha detto a "Jeune Afrique": «Sono proni a pagare più tasse, ad avere più obblighi ambientali e sociali, solo dal momento che le regole non cambino sempre. Quel che non è apprezzato sono i tergivesarmenti di alcuni governi, la mancanza di chiarezza nei negoziati, le dichiarazioni brusche e l'instabilità dei regolamenti minerari che fanno fuggire gli investitori». E Sam Jonah conclude: «Non ci si può aspettare che un gruppo minerario spenda dei miliardi di dollari su un lungo periodo se è nell'incertezza».

Malgrado l'interesse delle multinazionali per i giacimenti africani, nel 2011 la produzione mineraria è calata in 9 dei 13 Paesi oggetto dello studio di Ernst & Young: nella Rdc contribuisce solo al 3,6% del Pil e nel 2007 aveva portato solo 274 milioni di euro nelle casse dello Stato, molto meno di quanto probabilmente si spende per la guerra mineraria endemica e per i suoi tragici effetti sulle popolazioni ed il territori. La produzione dell'impresa del Katanga (rdc) Gécamines è calata dalle oltre 450.000 tonnellate di rame della fine degli anni '80 a 21.000 tonnellate nel 2011 e ad Ahmed Kalej Nkand, direttore generale del gruppo, non è rimesto che dire: «Bisogna arrendersi all'evidenza: le 29 joint venture firmate con dei partner privati internazionali non hanno dato i risultati che ci aspettavamo».

Ma anche nel vicino Zambia, con la sua "cintura del rame" le cose non vanno meglio: il settore minerario rappresenta solo l'1,3% della sua economia e le entrate minerarie nel 2008 hanno portato nelle casse del governo di Lusaka 367 milioni di euro, una "miseria" che ha portato all'approvazione di nuove tasse ed ad un aumento dell'ostilità e degli scioperi verso gli investitori stranieri e soprattutto i cinesi. Lo Zambia è stato il teatro del più grande scandalo dell'evasione fiscale mineraria, quello della Mopani Copper Mines, che ha visto protagoniste le multinazionali Glencore e First Quantum, denunciate nel 2011 da una coalizione di Ong. Attualmente la Guinea esporta praticamente solo bauxite grezza e nel 2005 le entrate minerarie dello Stato si fermavano a 117 milioni di euro. Le sue riserve di ferro, le più importanti dell'Africa e che le multinazionali si contendono a colpi di concessioni, bustarelle e promesse di sviluppo, aspettano ancora di essere sfruttate. Il gigante minerario australiano Rio Tinto (accusato di aver finanziato dittatori e golpisti di Conakry), che detiene delle licenze sul mega-giacimento di Simandou dal 1995, non ha ancora avviato la produzione e i progetti di raffinerie di alluminio cinesi e russe sono ancora in stand-by.

Anche il Sudafrica, uno dei Paesi più ricchi di minerali del mondo, con riserve valutate in 1.900 miliardi di euro, vede le sue entrate minerarie diminuire ogni anno. Al summit di Città del Capo il ministro alla pianificazione, Trevor Manuel, ha spiegato che «Negli anni '70 le miniere contribuivano al 21% del Pil ed a più di 600.000 posti di lavoro. Oggi siamo scesi al 6% del Pil ed a 400.000 salariati. Questo non è accettabile». Ma il rapporto di Ernst & Young smentisce parzialmente il ministro sudafricano, visto che il contributo delle miniere al Pil del più ricco Paese africano sarebbe in realtà del 9,1%.

Comunque, di fronte a questa situazione di palese ingiustizia, Guinea, Zambia, Sudafrica, Mali, Burkina Faso e Ghana hanno annunciato tutti una revisione dei loro codici minerari e dei contratti in corso di esecuzione. Vogliono aumentare tasse e royalties per rimpinguare le esauste casse pubbliche ma anche perché, sotto pressione dell'opinione pubblica, il loro obiettivo prioritario è quello di favorire la crescita dei posti di lavoro, i subappalti alle ditte locali, la costruzione di infrastrutture e la trasformazione dei minerali localmente. Per questo i governi africani stanno analizzando la strategia delle multinazionali minerarie presenti sul loro territorio ed entrano nel capital di queste imprese. In Mali il governo vuole aumentare la sua partecipazione nelle miniere dal 15 al 25%, in Guinea lo Stato ha imposto che gli siano concesse gratuitamente il 15% delle azioni dei progetti minerari.

Intervenendo a Mining Indaba il ministro delle miniere ella Rdc, Martin Kabwelulu Labilo, ha spiegato: «Dal 2003, abbiamo accordato 420 permessi minerari in Congo Rdc, ma le condizioni di vita della popolazione non sono cambiate. E' tempo di mettere in campo nuove disposizioni. Tra le misure previste, degli incentivi fiscali per incoraggiare la trasformazione locale dei minerali».

Si annunciano tempi ancora più duri per la siderurgia e le industrie dei metalli in generale, già in crisi nei Paesi sviluppati: anche il poverissimo Burkina Faso sta preparando misure simili e il suo ministro dell'economia, Lucien Marie Noël Bembamba, ha detto a Città del Capo: «Contiamo di adottare un nuovo Code minier nel 2012. Dobbiamo rimanere attrattivi per gli investitori, ma permettere anche che le popolazioni delle località dove i siti sono sfruttati beneficino maggiormente delle ricadute».

Il numero dei lavoratori africani nelle multinazionali minerarie è ancora basso, soprattutto a livello dirigenziale e gestionale. «Quando sono stato presidente di AngloGold Ashanti - ha detto Jonah - siamo riusciti a far emergere dei quadri africani di alto livello. Ma oggi restano ancora ultraminoritari. Con il boom minerario si osserva un ritorno in forza degli immigrati, perché le competenze locali non sono abbastanza numerose». Boubacar Bocoum, responsabile del settore minerario alla Banca mondiale evidenzia un altro aspetto: quello della formazione, «I gruppi africani che potrebbero aumentare le competenze locali si contano ancora sulle dita di una mano. Al di fuori delle società sudafricane, nessuna compagnia conta davvero su un livello internazionale. Delle scuole minerarie esistono sul continente, ma non sono sufficientemente riconosciute internazionalmente. Sarebbe meglio se fossero meno numerose ma di un miglior livello, soprattutto in materia finanziaria».

Umberto Mazzantini

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