giovedì, marzo 01, 2012
Lavorare ogni giorno per migliorare il quartiere nonostante gli stereotipi e la disinformazione

Liberainformazione - Pasquale Fernandez vive a Scampia. Ama il suo quartiere e non stima i giornalisti. Per anni hanno distrutto l’immagine del luogo in cui è cresciuto. Solo per fare notizia. “Tanto siamo sempre noi a subirne le conseguenze”, sbotta indignato. “Ovunque vada sono etichettato. Sembra quasi che il mio futuro sia già deciso a priori”. Da due anni è in cerca di lavoro. Nonostante un curriculum “che spacca” e un’intelligenza persino troppo vivace, non riesce a trovare nulla. Non appena dice di essere di Scampia, le porte si chiudono. Con i suoi amici ha deciso di scrivere un manifesto culturale. Sconfiggere la disinformazione è il loro obiettivo. “L’idea è di unire in un’unica iniziativa il mondo dell’arte e tutte le associazioni che lavorano sul territorio. Per riscattarci dalla rappresentazione che i media danno di noi. E se l’unico modo per farlo è la cultura allora noi ne creeremo una nuova”, dice con gli occhi eccitati di un bambino.

Ma è inutile chiedergli di più. Non sa ancora da che parte iniziare. Come chiunque cerchi di contrastare decenni di pregiudizi, Pasquale non ha fretta. Del resto ha da poco compiuto vent’anni. Ha ancora molto da imparare e non è mai stato il primo della classe. A scuola è sempre andato controvoglia. E ai banchi ha sempre preferito le strade larghe e ossigenate della periferia. “Per me essere una persona di cultura non significa avere la laurea, ma saper guardare in faccia la vita. Ascoltare la gente e capirla”, replica per giustificarsi. Fino a poco tempo fa la sua giornata era fatta di poco studio e tanta musica. Finite le ore di lezione obbligatorie andava dagli amici o girava per la città con l’iPod “a palla” nelle orecchie: “La musica mi ha salvato dall’esaurimento nervoso. Ho iniziato a scrivere testi rap a quindici anni, per sfogare il disagio sociale che si vive in questa zona.

Così oggi il mio sogno è di raccontare ogni aspetto della mia terra. Il mio idolo è Tupac perché ha un passato simile al mio”. Non a caso uno dei suoi mantra è il verso di una canzone del rapper statunitense. “L’odio che danno ai bambini è quello che manda il mondo a puttane”, recita. Lui la pensa proprio così. “I ragazzi di Scampia sono emarginati e odiati dalla Campania e dall’Italia. Dipinti come dei criminali sanguinari che imbracciano kalashnikov e non si fanno scrupoli a premere il grilletto. Poi arrivi qua e ti rendi conto della gente che realmente la popola”. È un freddo pomeriggio d’inverno. Il cielo è cristallino e dal decimo piano della Vela Rossa si ha l’impressione di dominare l’intera Napoli. Lo scrosciare dell’acqua che esce dalle tubature spezzate è incessante ed echeggia ovunque. Buona parte di questi appartamenti è ormai vuota. All’inizio degli anni novanta, quando furono prese d’assalto da disperati attratti dalla promessa di un sogno, ogni Vela conteneva duecentoquaranta famiglie. Più gli abusivi stipati nei sottoscala. La media era di ottocento bambini per un solo campetto di calcio. E qualche pallone, se capitava. Nessun supermercato. Nessuna farmacia. Nessun negozio. Come potevano non diventare un luogo capace di stoccare quintali di droga? “Fin da piccolo però ho imparato che il camorrista non è chi vende la droga ma chi vuole che qui vi sia quest’immondizia”, commenta Pasquale incupendosi. I suoi lineamenti diventano duri e la voce strozzata: “Vivere qui vuol dire crescere prima. Vedi quel posto laggiù – dice indicando un lungo fosso, colmo di rifiuti -, quello è il canale della morte.

Lì si bucano i tossici che arrivano da tutta la Campania. Qualcuno muore durante la notte e all’alba trovano il cadavere in mezzo ai rifiuti. Perciò a un’età in cui dovresti pensare solo a giocare, ti poni degli interrogativi più grandi di te: perché quel ragazzo è talmente infelice da aver bisogno di drogarsi? E se un giorno ne avessi bisogno anch’io?”. Pasquale ha risposto a questi interrogativi da solo. Ma sa quanto è stato difficile e cerca di mettere la sua esperienza a servizio dei ragazzi del Centro territoriale Mammut: poche stanze ricavate da un magazzino in Piazza Giovanni Paolo II, cuore di Scampia. Qui l’atmosfera è elettrica. Chiara non si ferma un attimo. Con una mano risponde al telefono, con l’altra riordina la scrivania.

Tra lei e Scampia è stato amore a prima vista. “C’è un’energia particolare”, dice senza retorica. Per questo cinque anni fa ha deciso di lavorare nella zona. E ora torna a casa solo per dormire: “La vita è molto più tranquilla di ciò che si pensa. Basta con i luoghi comuni su Scampia. La sovraesposizione mediatica danneggia i ragazzi quanto il frequente contatto con i tossicodipendenti. Ed è un peccato perché qui ho incontrato le persone più intelligenti che conosca”.

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