martedì, aprile 03, 2012
Soddisfazione internazionale per il trionfo di Aung San Suu Kyi alle elezioni Birmane, che segnano il ritorno in Parlamento del premio Nobel per la pace dopo 15 anni di detenzione. Plauso dall’Ue, dalla Casa Bianca, dal Capo dello Stato italiano Napolitano e dalla Conferenza episcopale locale.

Radio Vaticana - Come parlamentare e leader dell'opposizione, Suu Kyi avrà ora un ruolo senza precedenti nel processo legislativo e il suo partito guarda già avanti alle prossime elezioni generali che si terranno nel 2015. Aung San Suu Kyi entrerà, dunque, in Parlamento dopo 15 anni trascorsi tra carcere e arresti domiciliari. Un segnale importante per il processo di democratizzazione del Paese. Salvatore Sabatino ne ha parlato con Stefano Caldirola, docente di Storia Contemporanea dell’Asia presso l’Università di Bergamo:

R. - Dal punto di vista politico è un grandissimo risultato per Aung San Suu Kyi e per il suo partito, la Lega per la Democrazia, anche se poi di effettivo poco cambia, perché si trattava di 45 seggi su 664: indubbiamente, però, la giornata elettorale può segnare una svolta nella politica birmana.

D. - La consultazione, che poi è stata la terza in mezzo secolo, può essere considerata uno spartiacque rispetto a più di un ventennio di repressione?


R. - Le consultazioni elettorali sono state quelle con un maggior grado di libertà e di partecipazione rispetto a quelle del 1990, che la Lega per la Democrazia di Aung San Suu Kyi aveva vinto nettamente, ma che erano state poi annullate dalla Giunta militare. Non è ancora possibile dire quanto sia effettivamente libero il processo democratico ed elettorale in Birmania, in quanto anche gli stessi osservatori dell’Unione Europea, degli Stati Uniti e dell’Asean sono stati ammessi alle consultazioni non con mesi di anticipo o con settimane di anticipo come di norma è previsto, ma soltanto alcune ore prima del voto. E’ certo che chi sostiene la sostanziale libertà di questa consultazione elettorale ha dalla sua il dato del risultato, che indubbiamente serve ancor più rispetto a quelle che sono state le effettive libertà degli osservatori.

D. - Alla vigilia delle elezioni, tra l’altro, la stessa Aung San Suu Kyi ha denunciato la possibilità di brogli elettorali: ora questa sua vittoria può essere messa in dubbio o esaltata rispetto ai risultati?


R. - Certamente il rischio di brogli elettorali denunciato da Aung San Suu Kyi era a favore dei candidati vicini ad alcuni elementi della Giunta militare. Le consultazioni - visti i risultati - sono state probabilmente più libere di quanto la stessa Aung San Suu Kyi si aspettasse.


D. - Il nuovo presidente, l’ex generale Thein Sein, ha concesso aperture importanti, tra le altre cose: la liberazione dei prigioni politici, l’allentamento della censura per i media…. Queste aperture possono essere interpretate come il voler sottrarsi alla Cina - il suo maggior alleato regionale - puntando invece ad ottenere la revoca delle sanzioni economiche?


R. - All’interno del potere birmano vi è una fazione che cerca di allentare i legami con la Cina, che cerca di riavvicinarsi agli Stati occidentali con l’obiettivo dell’annullamento delle sanzioni: sanzioni che hanno rappresentato un colpo economico piuttosto duro per la Birmania, soprattutto nel settore tessile con la perdita tra i 60 mila e gli 80 mila posti di lavoro. Vi è inoltre una parte consistente della leadership del Myanmar che soffre e che non vede particolarmente di buon occhio l’enorme e preponderante presenza cinese, soprattutto nell’economia.


D. - Non c’è il pericolo di una restaurazione come quella del ’90, quando le elezioni vinte da Aung San Suu Kyi furono annullate e fu imposta la legge marziale?


R. - Questo è un pericolo che in Myanmar c’è sempre, soprattutto perché adesso con la vittoria di Aung San Suu Kyi e del suo partito la palla passa nel campo dei militari. Sappiamo, anche se in realtà poco viene fatto trapelare all’esterno, che ci sono delle divisioni all’interno della leadership birmana che ai cosiddetti moderati - come Thein Sein - che cercano un dialogo con l’Occidente, si contrappone una fazione invece filo-cinese, ma anche una fazione di militari che sono oltranzisti e che non vedono assolutamente di buon occhio le aperture democratiche. Per cui adesso ci sarà probabilmente una dialettica all’interno degli stessi militari e dal risultato di questo probabile scontro politico, dipenderà poi molto il processo effettivo di ulteriore apertura democratica del Paese.


D. - Anche alla luce del risultato elettorale, il Myanmar oggi che Paese è?


R. - Il Myanmar è un Paese in una fase di transizione; è un Paese che ha ancora degli enormi problemi economici; è un Paese ancora molto povero, in cui il potere è ancora detenuto da poche decine di famiglie e poche decine di militari: è di fatto un Paese che si sta apprestando ad aprirsi al mondo. Una delle conseguenze, ad esempio, della possibile revoca delle sanzioni e della possibile democratizzazione del Paese potrebbe essere anche un aumento - che è già stato registrato nel corso degli ultimi due anni - di visitatori e quindi un incremento del settore turistico e dei contatti generali con il mondo esterno. Quindi si tratta di un Paese ancora relativamente chiuso, ma che è in una fase di rapida apertura come del resto quasi tutti i Paesi che lo circondano. (mg)

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