venerdì, aprile 27, 2012
La condanna dell’ex presidente liberiano Charles Taylor deve essere il primo passo per una giustizia senza doppi standard, che non dimentichi nessuna vittima: lo dice alla MISNA Donald Deya, direttore dell’Unione panafricana degli avvocati (Palu), all’indomani del verdetto del Tribunale speciale per la Sierra Leone

Misna - Ieri Taylor è stato giudicato colpevole in relazione a 11 capi di accusa, dai crimini di guerra all’arruolamento di bambini-soldato, reati commessi quando dalla Liberia armava e finanziava i ribelli protagonisti della guerra civile al di là del confine (1991-2002). Per sapere quanti anni dovrà restare in carcere bisognerà aspettare il 30 maggio, ma già poche ore dopo l’annuncio dell’Aja si potevano capire i sentimenti della gente, intuire i problemi e guardare al futuro.

La condanna è una buona notizia anche vista da Arusha, la città della Tanzania che ospita la sede dell’Unione panafricana degli avvocati e del Tribunale penale internazionale per il Rwanda?

“È un’ottima notizia. Taylor meritava di essere riconosciuto colpevole. Ho solo un paio di riserve. Ho seguito in televisione le reazioni della gente a Freetown e a Monrovia. Alla gioia dei sierraleonesi è corrisposto un sentimento ambivalente dei liberiani. Sono felici della condanna ma pensano anche alle atrocità commesse nel loro paese. Atrocità sulle quali il Tribunale speciale per la Sierra Leone non ha potuto indagare. I liberiani si chiedono quando avranno giustizia le loro vittime”.

Cosa si dovrebbe fare?

“Bisogna premere sul governo di Monrovia affinché adotti le misure necessarie per indagare e per celebrare un processo. In questo senso, la comunità internazionale ha una grande responsabilità”.

Prima di Taylor c’è stato Thomas Lubanga, l’ex capo ribelle congolese condannato dalla Corte penale internazionale a marzo. Presto toccherà a Laurent Gbagbo, l’ex presidente della Costa d’Avorio. All’Aja finiscono solo gli africani?

“La Corte penale internazionale ha il dovere di perseguire i responsabili delle atrocità commesse in tutto in mondo, non solo in Africa. In diversi casi non è stato fatto nulla o ci sono state risposte inadeguate. Ma il fatto che la maggioranza dei sospetti finiti all’Aja siano africani non è un motivo valido per boicottare la Corte. Un aspetto importante è piuttosto il rispetto del principio della complementarità. In prima istanza i sospetti devono essere indagati e perseguiti a livello nazionale. I magistrati dell’Aja devono intervenire solo qualora i paesi coinvolti non vogliano o non possano portare avanti i procedimenti. Tra le responsabilità della Corte c’è il sostegno e l’assistenza a tutti i paesi”.

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