A dar retta alle parole del ministro delle Finanze tedesco,la Grecia ha già un piede fuori dall’euro.
E-ilmensile - Al quotidiano Rheinische Post, Wolfgang Schauble ha detto di augurarsi che la Grecia resti nell’euro ma di non poterla certo obbligare. Insomma, l’area euro può continuare a esistere anche senza Atene. Il che non è una scoperta, visto che il Pil greco equivale a quello della sola provincia di Verona. Politicamente, però, il discorso è completamente diverso: l’uscita dalla moneta unica avrebbe un peso e un significato di tutt’altro rilievo e soprattutto sarebbe un segnale per la speculazione internazionale che tornerebbe a colpire nell’area euro, prossimi obiettivi: Spagna, Portogallo e molto probabilmente anche l’Irlanda – proprio ieri, l’agenzia di rating Fitch ha parlato di un probabile downgrading di tutta l’area in caso di uscita della Grecia, che per Citigroup è molto probabile – ma quest’ attacco speculativo darebbe ulteriori argomenti a quanti vogliono i cosiddetti eurobond, ovvero che la Bce venga dotata di tutti i poteri di una vera Banca centrale, soprattutto quello di emettere obbligazioni di debito, ipotesi fortemente osteggiata da Berlino. L’unica vera arma definitiva contro la speculazione, oltre a una ferrea regolamentazione del mercato dei derivati. Per cui, la sensazione che hanno molti trader e operatori del settore è che il fallimento della Grecia e la sua uscita dall’euro non siano affatto scontati. Di fatto, la seconda tranche di aiuti, 31,1 miliardi di euro condizionati all’adozione di ulteriori misure di austerity da parte di Atene, non sembra in discussione. A Berlino fare la voce grossa adesso servirebbe più che altro per fare pressioni sulle istituzioni greche in un momento di forte sbandamento politico e dove, se si tornasse alle urne, come sembra probabile, gli ultimi sondaggi danno Syriza, coalizione della sinistra radicale, antieuro, al 25 per cento, con la possibilità di arrivare al 41 con il premio di maggioranza.
Tutto bene, allora? Non proprio: anche in Germania il numero di coloro che si chiedono che senso abbia la convivenza forzata sotto l’ombrello dell’euro è in aumento. Nel novembre 2011, il partito di Angela Merkel ha votato una risoluzione che dice testualmente che “nel caso in cui un membro si trovasse nella condizione di non poter obbedire alla regole imposte dalla moneta unica, gli dovrebbe venir consentito – in modo autonomo, e secondo le regole del Trattato di Lisbona – di uscire dall’euro senza dover uscire anche dall’Unione europea”. Un passaggio che ha fatto pensare diversi commentatori che la Cdu stesse in realtà riferendosi a Berlino, più che ad Atene o Madrid. E se fosse la Germania a prendere la porta e uscire? L’argomentazione è lineare: i tedeschi si sono stancati di versare i loro soldi in un pozzo senza fondo e di avere banche che insieme ai risparmi loro risparmi hanno titoli greci, che potrebbero diventare carta straccia in caso di un default ellenico. Ed è vero che la popolarità della Merkel cresce, o diminuisce, a seconda della sua capacità di imporre una linea rigorista ai Paesi-cicala. Ma adesso, priva del suo principale alleato, la Francia di Nicholas Sarkozy, si trova isolata in una battaglia, quella per il rigore e contro l’introduzione degli eurobond, in cui difficilmente riuscirà a tenere la posizione. E allora l’unica opzione potrebbe essere l’uscita dall’euro. Coloro che sostengono che la decisione sia stata presa, dicono che la prova arriverebbe dalla riattivazione del Soffin, il Fondo speciale di stabilizzazione del mercato, creato nel 2008 e dotato di munizioni per 480 miliardi di euro, messo a riposo nel 2010 e riportato in vita proprio nel novembre 2011, quando la Cdu votava la risoluzione sull’uscita dall’euro. Il Soffin è uno strumento a protezione delle banche tedesche, nel caso di una crisi che possa richiedere strumenti di garanzia e un veloce rifinanziamento. Quale shock? Il primo che viene in mente è l’uscita di Berlino dall’euro.
Una voce che sporadicamente torna a circolare. Alcuni mesi fa, si vociferava che la Germania fosse tornata a stampare marchi. Sull’argomento, va segnalata anche un’interrogazione del Parlamento europeo alla Commissione. Un sospetto di cui hanno scritto anche testate come il Financial Times e il Washington Post, di cui ha parlato come di una cosa certa Philippa Malmgren, analista di Principalis, su cui ha ragionato l’economista Usa Barry Eichengreen. Berlino potrebbe farlo. Sarebbe questo il piano B tedesco o il famigerato black swan di cui ogni tanto si sente parlare. La domanda è: le converrebbe? A leggere un report del 2007 della Monetary Authority di Singapore, intitolato “Checking Out: Exit from Currency Unions”, sì: la casistica spiega che in genere chi lascia da una posizione di forza, ci guadagna. Un rapporto della Ubs, però, dice il contrario. La Germania dovrebbe pagare un prezzo molto più alto di quanto non le costerebbe accollarsi, insieme alle economie più forti, il salvataggio di Grecia, Irlanda e Portogallo insieme. In particolare, la Germania pagherebbe un costo immediato per il deterioramento della propria bilancia commerciale, perché con una moneta più forte le sue merci sarebbero meno competitive: non va dimenticato poi che il 60 per cento dell’export tedesco è assorbito dall’Europa e se l’area euro collassasse, la Germania subirebbe pesanti contraccolpi. Berlino, insomma, è forte di dati macroeconomici positivi e rassicuranti ma che sono in parte dovuti al suo essere un’economia stabile e forte ma nell’area continentale. Fuori dall’euro, non è detto che possa continuare sulla stessa strada. Buttare a mare la zavorra greca non sarà così facile e potrebbe addirittura non essere conveniente.
E-ilmensile - Al quotidiano Rheinische Post, Wolfgang Schauble ha detto di augurarsi che la Grecia resti nell’euro ma di non poterla certo obbligare. Insomma, l’area euro può continuare a esistere anche senza Atene. Il che non è una scoperta, visto che il Pil greco equivale a quello della sola provincia di Verona. Politicamente, però, il discorso è completamente diverso: l’uscita dalla moneta unica avrebbe un peso e un significato di tutt’altro rilievo e soprattutto sarebbe un segnale per la speculazione internazionale che tornerebbe a colpire nell’area euro, prossimi obiettivi: Spagna, Portogallo e molto probabilmente anche l’Irlanda – proprio ieri, l’agenzia di rating Fitch ha parlato di un probabile downgrading di tutta l’area in caso di uscita della Grecia, che per Citigroup è molto probabile – ma quest’ attacco speculativo darebbe ulteriori argomenti a quanti vogliono i cosiddetti eurobond, ovvero che la Bce venga dotata di tutti i poteri di una vera Banca centrale, soprattutto quello di emettere obbligazioni di debito, ipotesi fortemente osteggiata da Berlino. L’unica vera arma definitiva contro la speculazione, oltre a una ferrea regolamentazione del mercato dei derivati. Per cui, la sensazione che hanno molti trader e operatori del settore è che il fallimento della Grecia e la sua uscita dall’euro non siano affatto scontati. Di fatto, la seconda tranche di aiuti, 31,1 miliardi di euro condizionati all’adozione di ulteriori misure di austerity da parte di Atene, non sembra in discussione. A Berlino fare la voce grossa adesso servirebbe più che altro per fare pressioni sulle istituzioni greche in un momento di forte sbandamento politico e dove, se si tornasse alle urne, come sembra probabile, gli ultimi sondaggi danno Syriza, coalizione della sinistra radicale, antieuro, al 25 per cento, con la possibilità di arrivare al 41 con il premio di maggioranza.
Tutto bene, allora? Non proprio: anche in Germania il numero di coloro che si chiedono che senso abbia la convivenza forzata sotto l’ombrello dell’euro è in aumento. Nel novembre 2011, il partito di Angela Merkel ha votato una risoluzione che dice testualmente che “nel caso in cui un membro si trovasse nella condizione di non poter obbedire alla regole imposte dalla moneta unica, gli dovrebbe venir consentito – in modo autonomo, e secondo le regole del Trattato di Lisbona – di uscire dall’euro senza dover uscire anche dall’Unione europea”. Un passaggio che ha fatto pensare diversi commentatori che la Cdu stesse in realtà riferendosi a Berlino, più che ad Atene o Madrid. E se fosse la Germania a prendere la porta e uscire? L’argomentazione è lineare: i tedeschi si sono stancati di versare i loro soldi in un pozzo senza fondo e di avere banche che insieme ai risparmi loro risparmi hanno titoli greci, che potrebbero diventare carta straccia in caso di un default ellenico. Ed è vero che la popolarità della Merkel cresce, o diminuisce, a seconda della sua capacità di imporre una linea rigorista ai Paesi-cicala. Ma adesso, priva del suo principale alleato, la Francia di Nicholas Sarkozy, si trova isolata in una battaglia, quella per il rigore e contro l’introduzione degli eurobond, in cui difficilmente riuscirà a tenere la posizione. E allora l’unica opzione potrebbe essere l’uscita dall’euro. Coloro che sostengono che la decisione sia stata presa, dicono che la prova arriverebbe dalla riattivazione del Soffin, il Fondo speciale di stabilizzazione del mercato, creato nel 2008 e dotato di munizioni per 480 miliardi di euro, messo a riposo nel 2010 e riportato in vita proprio nel novembre 2011, quando la Cdu votava la risoluzione sull’uscita dall’euro. Il Soffin è uno strumento a protezione delle banche tedesche, nel caso di una crisi che possa richiedere strumenti di garanzia e un veloce rifinanziamento. Quale shock? Il primo che viene in mente è l’uscita di Berlino dall’euro.
Una voce che sporadicamente torna a circolare. Alcuni mesi fa, si vociferava che la Germania fosse tornata a stampare marchi. Sull’argomento, va segnalata anche un’interrogazione del Parlamento europeo alla Commissione. Un sospetto di cui hanno scritto anche testate come il Financial Times e il Washington Post, di cui ha parlato come di una cosa certa Philippa Malmgren, analista di Principalis, su cui ha ragionato l’economista Usa Barry Eichengreen. Berlino potrebbe farlo. Sarebbe questo il piano B tedesco o il famigerato black swan di cui ogni tanto si sente parlare. La domanda è: le converrebbe? A leggere un report del 2007 della Monetary Authority di Singapore, intitolato “Checking Out: Exit from Currency Unions”, sì: la casistica spiega che in genere chi lascia da una posizione di forza, ci guadagna. Un rapporto della Ubs, però, dice il contrario. La Germania dovrebbe pagare un prezzo molto più alto di quanto non le costerebbe accollarsi, insieme alle economie più forti, il salvataggio di Grecia, Irlanda e Portogallo insieme. In particolare, la Germania pagherebbe un costo immediato per il deterioramento della propria bilancia commerciale, perché con una moneta più forte le sue merci sarebbero meno competitive: non va dimenticato poi che il 60 per cento dell’export tedesco è assorbito dall’Europa e se l’area euro collassasse, la Germania subirebbe pesanti contraccolpi. Berlino, insomma, è forte di dati macroeconomici positivi e rassicuranti ma che sono in parte dovuti al suo essere un’economia stabile e forte ma nell’area continentale. Fuori dall’euro, non è detto che possa continuare sulla stessa strada. Buttare a mare la zavorra greca non sarà così facile e potrebbe addirittura non essere conveniente.
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