Vi aspetta sulla soglia di casa già mezz’ora prima che arriviate. Tutto per facilitarvi i compiti, il parcheggio in piena Londra per esempio. Alto, magro, occhiali dalle lenti spesse, con una bella ottantina di primavere, Luigi vi accoglie con fare bonario, a braccia aperte e con il cuore in mano. Segni delle sue origini contadine a Farra di Soligo, nel trevisano…
Ma appena seduti a tavola, nel suo discorso non mancherà di impennate da professore, anzi a dire il vero, da combattente della resistenza. “È la figura più genuina di emigrante che ho trovato!” senti esclamare da qualcuno. E questo per la parola pronta, l’occhio che legge le cose in profondità e una voglia di giustizia che tiene dentro, in corpo. Da lui vi sentirete subito a casa. Tra persone vere.
Sì, il nome sarebbe Luigi, ma tutti, anche i suoi, lo chiamano “Giovanin”. E questo già da piccolo: “Giovanin senza paura” era il nomignolo, figlio di nessuno, avendo perso mamma e papà già dai primi anni. È toccato poi alla vita educarlo, come sa fare lei, concretamente. Perchè “chi varda la luna casca nel fosso” (chi guarda la luna cade nel fosso), ti ripete lui. Una vita dura, aspra e avventurosa di emigrante in terra inglese.
Oggi ti sembra un vecchio patriarca, con una figlia, tre nipoti e tre pronipoti, “bruti in fasse, ma bei in strasse” (brutti appena nati, belli da grandi) aggiunge, spiegando il grande futuro che attende i figli dei migranti. Accanto a lui c’è sempre Rina: assomiglia alla Vergine Maria, per la bontà e la pazienza, coltivata in cinquant’anni insieme, perchè “l’amore senza baruffa fa la muffa!” ridacchia tra sè e sè. Sul volto conserva sempre quel mezzo sorriso birbone rimastogli del “monello di Farra,” che vi ricorda, in fondo, che la verità non è mai quella che si vede. E lo fa scattare subito “Mi no go paroni!” quando si parla del suo lungo lavoro di autista privato nella Londra degli anni ‘60. Accompagnava nella loro Mercedes da un capo all’altro della metropoli un emiro arabo, poi un altro, poi un ricco ebreo... Sì, li licenziava uno per volta, dice lui, perchè non erano puntuali o erano troppo ricchi o troppo strani.
Da sempre egli ama davvero la sua libertà. Non i soldi. Anche se con quel lavoro non mancavano, anzi. Lo apprezzavano e lo preferivano perfino agli autisti inglesi, perchè lui era un esperto raffinato di strade e di percorsi. Sapeva arrivare dappertutto. “Vedi, studiare le carte durante la guerra come paracadutista fu una scuola eccellente”, ti preciserà subito. La guerra serve a vivere. Chi l’avrebbe mai immaginato?
Luigi Girardi ha fondato poi con altri il Club Italia al Centro Scalabrini, con il famoso gioco delle bocce, si è meritato il titolo di Cavaliere della Repubblica e di Maestro del lavoro e continua ad animare il Circolo dei Veneti. Ma soprattutto continua a non aver paura di nessuno. La vita di emigrazione gli ha insegnato a dare del tu a tutti e a “dire le quattro verità” anche al Console o a qualsiasi autorità. Anche al Papa se serve, ti aggiunge. Ma un mezzo sorriso ti fa capire subito che per lui resta ancora un pizzico di devozione. “Domino vobisco” aggiunge, poi, quasi per dire che parliamo la stessa lingua. Alla fine, tranquillo, ti sentenzia come sempre un ritornello: “Co’ se sta ben, se more” (Quando infine si sta bene, si muore). Missione compiuta. Bravo, Giovanin!
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