martedì, maggio 01, 2012
Sguardo di italiani emigrati all’estero sulla vita nel nostro paese

del nostro corrispondente a Londra Renato Zilio

“Siamo nati e cresciuti in un società in cui senza i soldi non si ottiene nulla o quasi: dalla scelta di dove abitare, al tipo di casa, alla scuola dei figli... Ecco perché la crisi la sentiamo tutti e tutti ne parlano. Dal denaro abbiamo una totale dipendenza. Ma ora in Italia si respira un’aria di resa”. Marianna, una giovane studentessa trevigiana alla London School of Economics, si sfoga con lucidità… “È il fallimento della nostra società italiana”, confessa. Ne cita un sintomo: il suicidio. È diventato un fatto ricorrente nei giornali: tutti ne raccontano, nessuno pare preoccuparsi di un’analisi. Lo raccontano come fossero casi isolati, incapaci di scavare più a fondo. L’angoscia, un tempo, di costruirsi una posizione a tutti i costi, senza preoccuparsi di coltivare dei valori, si è come rivoltata contro di noi: una specie di cortocircuito che ha fatto saltare il senso della vita. «L’uomo è ciò in cui crede» ricordava Anton Cechov.

E poi, spesso ci si è limitati a far crescere un figlio unico, perchè anche i figli – in una società come questa – quasi come una merce... costano. E, inconsciamente, lo si sente ripetere spesso; il fattore economico è ancora in questo caso determinante. Un giorno maledetto, per un incidente qualsiasi, muore il giovane e il mondo vi crolla addosso.

Così, oggi, ad ognuno Dio rivolge misteriosamente l’invito: “Esci dalla tua terra!” È il punto di partenza della fede: il primo passo di Abramo, sospinto unicamente dalla fiducia in Dio e dai suoi valori. Ci eravamo appassionati di poterci installare, di sentirci sicuri di noi e del nostro mondo. È ora di riscoprire cosa significa mettersi in cammino, cambiare abitudini, credere ai valori, uscire dal mondo delle nostre certezze. Dio attende alla frontiera.

Il mondo è cambiato sotto i nostri piedi. Un mondo plurale, dalle tante culture, dalle minoranze emarginate, dalle fragilità nascoste, dai giovani calpestati dal modello di vita costruito da noi stessi. Un mondo fondato su valori grandi, ma perduti, come l’accoglienza, il senso di sacrificio, la rettitudine, lo spirito di servizio.

Interessante sentire la voce di italiani emigrati all’estero come Marianna. Quando rientrano, non sfugge loro che in patria si è coltivato per anni un piccolo mondo antico, il senso del privilegio, il culto dell’immagine e dell’apparire, il gusto del possedere, l’abitudine ad approfittarne, il senso del gruppo chiuso. All’estero, società più moderne e la loro stessa avventura migratoria li hanno abituati a ben altri aspetti della vita, più rispettosi dell’altro o della comunità.

“Che cosa vuole?” si sentono perentoriamente chiedere al paese, presentandosi ad un ufficio. E da tanti segni vi si fa capire di rappresentare un’istituzione e la sua onnipotenza, alla quale semmai spetta concedervi qualcosa. All’estero spesso osservano, al contrario, che la prima preoccupazione è spostata dalla struttura alla persona e alla sua realizzazione. Un altro modo ricorrente di interpellarvi, pure, vi sorprenderà: “Can I help you?” (Posso aiutarla?). Rivela questo, in fondo, il senso del servizio.

Ogni istituzione, sia politica che religiosa, dovrebbe essere continuamente assillata da un’unica domanda: “Come posso meglio servirvi?”. Ciò mostrerà dov’è il suo vero centro di gravità: se in se stessa o nell’altro, che è chiamata per vocazione a servire. E vi dirà anche se per caso il servitore senza accorgersene sia diventato padrone, la casa comune un feudo e i suoi responsabili dei signori medievali.

Servire. Perfino Dio un giorno si mise a servizio dell’umanità. Era per far prendere coscienza ad ogni essere umano della propria dignità, a cominciare dai pastori, uomini ai margini della società. Oggi, sono forse i nostri giovani, i migranti... Sì, Dio attende alla frontiera. E la sua Terra Promessa si chiama condivisione.

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