La gestione della banca sotto indagine da parte della magistratura. Le conseguenze sul territorio e i dipendenti. Intervista al segretario Fiba Cisl Toscana, Stefano Biondi.
Città Nuova - Prima ancora che la Guardia di finanza entrasse nella sede centrale di palazzo Salimbeni, il Monte dei Paschi di Siena era sotto i riflettori delle cronache politiche ed economiche. L’antica e prestigiosa banca italiana, fondata come monte di pietà nel 1472, venti anni prima della data convenzionale della scoperta dell’America, ha visto i militari accedere, prima di tutto, ai locali dei server del sistema informatico per staccare la spina.
L’obiettivo era quello di scongiurare interventi sui dati contabili che nasconderebbero, secondo gli inquirenti, le tracce di reati commessi con l’operazione di acquisizione della banca Antonveneta. Brusca caduta del titolo in Borsa e crescita dell’apprensione per i dipendenti del gruppo bancario che ha già visto, finora, l’esodo, come riportano le cronache, di duemila e cinquecento lavoratori. Stefano Biondi,segretario Fiba Cisl della Toscana, conosce molto bene le vicende finanziarie intrecciate con il territorio e i gruppi di riferimento della città di Siena.
Quali irregolarità nell’operazione con l’ Antoveneta?
«Prima di tutto occorre fare una premessa, la vicenda della banca Monte dei Paschi è paradigmatica della situazione italiana: conflitto di interessi macroscopici, ruolo della politica e delle istituzioni, rapporti clientelari che si sono fatti sistema di un’intera città e del suo sviluppo, di cui la questione banca Antoveneta rappresenta solo l’amaro epilogo, ma le ragioni e le cause sono molto più profonde. Partiamo dai numeri. Nel 2005 la banca Antonveneta è stata acquistata da Abn Ambro per 7,5 miliardi di euro. Dopo solo due anni, nell’ottobre 2007, la stessa banca viene venduta al Banco di Santander per un prezzo complessivo di 6,6 miliardi di euro assieme a Interbanca. Un mese dopo, cioè nel novembre dello stesso anno, il MPS compra la sola Antonveneta, senza Interbanca, da Santander per 9 miliardi di euro».
Ma un’operazione del genere poteva rimanere inosservata?
«Infatti non lo è stata. Il Financial Times del tempo riportava la notizia segnalando il successo di Emilio Botin, presidente di Santander, in grado di realizzare “un profitto impressionante con la vendita di banca Antonveneta che aveva appena acquistato, il 60 per cento in un solo anno. Un guadagno immediato di capitale di circa 3,4 miliardi di euro”. Si trattò di un’operazione fortemente voluta dalla direzione del Monte Paschi, Mussari e Caltagirone, con il consenso di gran parte dei gruppi politici di riferimento, ma soprattutto gestita attraverso ottimi rapporti con Mediobanca e con i mezzi di comunicazione».
Come è stata finanziata l’intera operazione?
«Il contratto di acquisto di Antonveneta è a tutt’oggi sconosciuto. Le risorse sono state recuperate da varie fonti, asciugando la liquidità della Fondazione e a seguire con: l’aumento di capitale di 5 miliardi, l’emissione di obbligazioni fresh per 1 miliardo, l’emissione di un subordinato per 2,2 miliardi, l’utilizzo dei Tremonti Bonds per altri 1,9 miliardi e, infine, la svendita di “asset” per 2 miliardi».
“Asset” vuol dire non solo partecipazioni azionarie, ma anche immobili e intere aziende?
«Già, prendiamo il caso della Consumit: è una società di credito al consumo del gruppo MPS con circa 300 dipendenti e un indotto di circa 250 lavoratori di imprese toscane. Si tratta di un’azienda di successo con utili sempre in crescita (25 milioni nel 2010) e 3 miliardi di erogato, ma che è stata messa in vendita. Come sindacati stiamo sostenendo le istanze dei lavoratori che vedono incertezza nel loro futuro nonostante le promesse relative ad acquirenti interessati a rilevare il controllo della società».
Per recuperare altri fondi il Monte dei Paschi ha, nel 2011, deciso un nuovo aumento di capitale. In che modo?
«Per poterlo sottoscrivere, la Fondazione, che controlla la banca, ha venduto 470 milioni di azioni privilegiate Mps, incassando 370 milioni, ma con una minusvalenza di circa 200 milioni. Ha incassato 100 milioni dalla vendita della quota dello 0,34 per cento di Intesa SanPaolo, ma anche qui con una minusvalenza di circa 120 milioni e, infine, si è indebitata per circa 600 milioni cedendo un pacchetto di azioni a garanzia a 11 banche (tra cui Mediobanca, Deutsche Bank, Goldman Sachs e altre) pari a circa il 15 per cento del capitale di MPS».
A prescindere dall’esito delle indagini giudiziarie, come si presenta la situazione attuale del gruppo bancario ?
«A mio giudizio bisogna tener conto di altre operazioni oltre il caso Antonveneta, che hanno portato a bruciare 20 miliardi di valore della banca con la conseguenza di aver ridotto del 92 per cento il valore delle azioni nelle mani di piccoli azionisti e dipendenti. Quello che è più grave è che a quest’ultimi è stata insistentemente offerta la possibilità di trasformare in azioni MPS la propria retribuzione, i tfr e la previdenza complementare. Riducendo praticamente a zero la liquidità della Fondazione, si è impoverito il territorio di riferimento a causa della progressiva riduzione degli utili dello stesso ente distribuiti alla realtà locale. In tale contesto si sono mortificate le professionalità dei dipendenti del Gruppo MPS: la riduzione dell'organico nel periodo considerato ammonta a circa l'otto per cento del totale».
Come valuta, con la Guardia di finanza in sede, il presente di Montepaschi? Da dove ripartire?
«La situazione attuale rischia di essere pagata ulteriormente e gravemente dai lavoratori ma anche dall’intero territorio toscano, dal sistema delle piccole e medie imprese e da tutto il sistema creditizio presente in regione, che dovrà accollarsi un’economia già fortemente compromessa, in profonda crisi di liquidità e di sostegno creditizio. Occorre partire da questa consapevolezza se si vuole invertire la rotta e ripristinare il clima di fiducia di uno dei maggiori gruppi bancari che aveva fatto del rapporto virtuoso con il territorio uno dei suoi patrimoni inalienabili. Ci vuole una straordinaria immissione di trasparenza e di eticità per raddrizzare una situazione così compromessa».
Città Nuova - Prima ancora che la Guardia di finanza entrasse nella sede centrale di palazzo Salimbeni, il Monte dei Paschi di Siena era sotto i riflettori delle cronache politiche ed economiche. L’antica e prestigiosa banca italiana, fondata come monte di pietà nel 1472, venti anni prima della data convenzionale della scoperta dell’America, ha visto i militari accedere, prima di tutto, ai locali dei server del sistema informatico per staccare la spina.
L’obiettivo era quello di scongiurare interventi sui dati contabili che nasconderebbero, secondo gli inquirenti, le tracce di reati commessi con l’operazione di acquisizione della banca Antonveneta. Brusca caduta del titolo in Borsa e crescita dell’apprensione per i dipendenti del gruppo bancario che ha già visto, finora, l’esodo, come riportano le cronache, di duemila e cinquecento lavoratori. Stefano Biondi,segretario Fiba Cisl della Toscana, conosce molto bene le vicende finanziarie intrecciate con il territorio e i gruppi di riferimento della città di Siena.
Quali irregolarità nell’operazione con l’ Antoveneta?
«Prima di tutto occorre fare una premessa, la vicenda della banca Monte dei Paschi è paradigmatica della situazione italiana: conflitto di interessi macroscopici, ruolo della politica e delle istituzioni, rapporti clientelari che si sono fatti sistema di un’intera città e del suo sviluppo, di cui la questione banca Antoveneta rappresenta solo l’amaro epilogo, ma le ragioni e le cause sono molto più profonde. Partiamo dai numeri. Nel 2005 la banca Antonveneta è stata acquistata da Abn Ambro per 7,5 miliardi di euro. Dopo solo due anni, nell’ottobre 2007, la stessa banca viene venduta al Banco di Santander per un prezzo complessivo di 6,6 miliardi di euro assieme a Interbanca. Un mese dopo, cioè nel novembre dello stesso anno, il MPS compra la sola Antonveneta, senza Interbanca, da Santander per 9 miliardi di euro».
Ma un’operazione del genere poteva rimanere inosservata?
«Infatti non lo è stata. Il Financial Times del tempo riportava la notizia segnalando il successo di Emilio Botin, presidente di Santander, in grado di realizzare “un profitto impressionante con la vendita di banca Antonveneta che aveva appena acquistato, il 60 per cento in un solo anno. Un guadagno immediato di capitale di circa 3,4 miliardi di euro”. Si trattò di un’operazione fortemente voluta dalla direzione del Monte Paschi, Mussari e Caltagirone, con il consenso di gran parte dei gruppi politici di riferimento, ma soprattutto gestita attraverso ottimi rapporti con Mediobanca e con i mezzi di comunicazione».
Come è stata finanziata l’intera operazione?
«Il contratto di acquisto di Antonveneta è a tutt’oggi sconosciuto. Le risorse sono state recuperate da varie fonti, asciugando la liquidità della Fondazione e a seguire con: l’aumento di capitale di 5 miliardi, l’emissione di obbligazioni fresh per 1 miliardo, l’emissione di un subordinato per 2,2 miliardi, l’utilizzo dei Tremonti Bonds per altri 1,9 miliardi e, infine, la svendita di “asset” per 2 miliardi».
“Asset” vuol dire non solo partecipazioni azionarie, ma anche immobili e intere aziende?
«Già, prendiamo il caso della Consumit: è una società di credito al consumo del gruppo MPS con circa 300 dipendenti e un indotto di circa 250 lavoratori di imprese toscane. Si tratta di un’azienda di successo con utili sempre in crescita (25 milioni nel 2010) e 3 miliardi di erogato, ma che è stata messa in vendita. Come sindacati stiamo sostenendo le istanze dei lavoratori che vedono incertezza nel loro futuro nonostante le promesse relative ad acquirenti interessati a rilevare il controllo della società».
Per recuperare altri fondi il Monte dei Paschi ha, nel 2011, deciso un nuovo aumento di capitale. In che modo?
«Per poterlo sottoscrivere, la Fondazione, che controlla la banca, ha venduto 470 milioni di azioni privilegiate Mps, incassando 370 milioni, ma con una minusvalenza di circa 200 milioni. Ha incassato 100 milioni dalla vendita della quota dello 0,34 per cento di Intesa SanPaolo, ma anche qui con una minusvalenza di circa 120 milioni e, infine, si è indebitata per circa 600 milioni cedendo un pacchetto di azioni a garanzia a 11 banche (tra cui Mediobanca, Deutsche Bank, Goldman Sachs e altre) pari a circa il 15 per cento del capitale di MPS».
A prescindere dall’esito delle indagini giudiziarie, come si presenta la situazione attuale del gruppo bancario ?
«A mio giudizio bisogna tener conto di altre operazioni oltre il caso Antonveneta, che hanno portato a bruciare 20 miliardi di valore della banca con la conseguenza di aver ridotto del 92 per cento il valore delle azioni nelle mani di piccoli azionisti e dipendenti. Quello che è più grave è che a quest’ultimi è stata insistentemente offerta la possibilità di trasformare in azioni MPS la propria retribuzione, i tfr e la previdenza complementare. Riducendo praticamente a zero la liquidità della Fondazione, si è impoverito il territorio di riferimento a causa della progressiva riduzione degli utili dello stesso ente distribuiti alla realtà locale. In tale contesto si sono mortificate le professionalità dei dipendenti del Gruppo MPS: la riduzione dell'organico nel periodo considerato ammonta a circa l'otto per cento del totale».
Come valuta, con la Guardia di finanza in sede, il presente di Montepaschi? Da dove ripartire?
«La situazione attuale rischia di essere pagata ulteriormente e gravemente dai lavoratori ma anche dall’intero territorio toscano, dal sistema delle piccole e medie imprese e da tutto il sistema creditizio presente in regione, che dovrà accollarsi un’economia già fortemente compromessa, in profonda crisi di liquidità e di sostegno creditizio. Occorre partire da questa consapevolezza se si vuole invertire la rotta e ripristinare il clima di fiducia di uno dei maggiori gruppi bancari che aveva fatto del rapporto virtuoso con il territorio uno dei suoi patrimoni inalienabili. Ci vuole una straordinaria immissione di trasparenza e di eticità per raddrizzare una situazione così compromessa».
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