giovedì, maggio 03, 2012
Il MIUR, il Ministero per l'Istruzione, l'Università e la Ricerca guidato da Francesco Profumo, ha annunciato nei giorni scorsi lo stanziamento di 526 milioni di euro per il rilancio dell'economia della conoscenza al Sud d'Italia, nelle quattro regioni meridionali definite della convergenza: Campania, Puglia, Calabria e Sicilia. 

GreenReport - I fondi serviranno alla creazione di 24 laboratori misti pubblico-privato e di 18 distretti tecnologici in alcuni settori strategici, che vanno dall'energia e ambiente alla biomedicina e alle biotecnologie, dai nuovi materiali all'agroalimentare, dalle tecnologie per l'informazione e la comunicazione all'aerospazio, dalla mobilità ai beni culturali. Le procedure per l'assegnazione dei fondi ai 42 migliori progetti verranno espletate, assicura il ministero, entro giugno e i fondi saranno assegnati entro l'estate. Si tratta di una buona notizia, ovviamente. Che va nella direzione giusta. Portare l'Italia - e in particolare il Mezzogiorno, che è più attardato - nell'economia della conoscenza. Il che significa più lavoro e meglio retribuito in industrie che producono beni, materiali e immateriali, ad alta tecnologia. I paesi che sono entrati nell'economia della conoscenza - come la Germania e la Corea del Sud, paesi con una forte industria manifatturiera - hanno investito molto in ricerca scientifica e sviluppo tecnologico (R&S). L'Italia, che pure ha una grande industria manifatturiera, ha molta strada da recuperare. Ma il quadro non è tutto negativo. Il nostro paese, certo, investe poco in ricerca scientifica: appena l'1,2% del Prodotto Interno Lordo, contro il 2,7% della Germania o il 3,4% della Corea. Il ritardo rispetto alla media europea 1,7% e alla media mondiale (2,0%) è marcato. Il numero di nostri ricercatori - circa 80.000 - è un terzo di quello della Germania. Tuttavia, contrariamente a quanto qualcuno dice, i nostri ricercatori non sono affatto dei "fannulloni". Dalle statistiche internazionali, anzi, risulta che sono dei gran lavoratori: la loro produttività (misurata in termini di articoli per ricercatore) è seconda al mondo solo a quella degli svizzeri e pari a quella degli olandesi. E anche la qualità del loro lavoro è superiore alla media europea. In alcuni settori - come la fisica delle alte energie o la matematica - la qualità è altissima. Inoltre il tasso di internazionalizzazione della ricerca italiana (misurata attraverso il numero di progetti in comune con colleghi di altri paesi), pur essendo inferiore a quella della Germania o della Francia, è piuttosto alta e in crescita. Se volessimo sintetizzare la condizione dei ricercatori italiani dovremmo dire: pochi, ma buoni. Con poche risorse riescono a fare di più e spesso meglio di tanti loro colleghi in Europa e nel mondo. Tornando agli investimenti, quelli pubblici sono scarsi: il nostro stato investe in R&S circa lo 0,6% del PIL, il che significa un buon 30% in meno degli altri grandi paesi, sia di antica industrializzazione sia a economia emergente. Ma le nostre imprese investono ancora meno: a parità di dimensioni e fatturato un'impresa media italiana investe in R&S circa l'80% in meno di un'azienda media americana o giapponese. Il motivo di questa differenza non va ricercato nella cultura scientifica dei nostri imprenditori (che è del tutto analoga a quella degli imprenditori stranieri), ma nella specializzazione produttiva del sistema paese. Le nostre industrie producono, soprattutto, beni a media e bassa tecnologia. Che non richiedono - né in Italia, né altrove - grandi investimenti in R&S. Con questa specializzazione produttiva il nostro paese ha avuto un grande successo tra gli anni '50 e '70 del secolo scorso, quando eravamo i più poveri tra i ricchi, avevamo un costo del lavoro più basso degli altri paesi industriali e una moneta debole che poteva subire periodiche "svalutazioni competitive". Questo tipo di specializzazione produttiva ha perso capacità competitiva quando sulla scena dell'industria mondiale sono apparsi, sul finire degli anni '80 del secolo scorso, paesi con un costo del lavoro decisamente più basso di quello italiano (i paesi a economia emergente), proprio mentre il nostro entrava prima in un regime di cambi fissi con le altre monete europee poi nell'area della moneta unica, l'euro: una moneta forte e non svalutabile a piacimento. È da quel momento in poi che l'Italia avrebbe dovuto porsi il problema di un cambiamento di specializzazione produttiva della propria industria, puntando - come la Germania e la Corea del Sud - su produzioni di beni ad alto valore di conoscenza aggiunto. Non lo abbiamo fatto. E oggi paghiamo il conto di quell'errore strategico. Cosa occorre fare, per rimediare? Deve intervenire lo stato. Nessuna economia ha mai cambiato la propria specializzazione produttiva senza un intervento dello stato. Che deve assumere due forme: maggiori investimenti diretti in ricerca scientifica e in educazione terziaria; evocare una domanda di beni e servizi hi-tech mediante progetti mirati in settori strategici come la green energy, la salvaguardia del territorio, i beni culturali. Si dirà: e il rigore dei conti pubblici? Certo, la cruna dell'ago attraverso cui dobbiamo passare è strettissima. Ma non abbiamo altra scelta. I 526 milioni che il MIUR investirà nel Sud in progetti di ricerca e di sviluppo tecnologico vanno nella giusta direzione. Ma passeranno dall'altra parte della cruna e avranno successo solo ed esclusivamente se premieranno il merito. PIetro Greco

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