“Non c’è una nazione come questa!” esclama ammirativo Giuseppe parlando della terra che abita dal lontano 1954, il Regno Unito. E con questo aggiunge tutto il suo apprezzamento per la regina, che ha appena fatto vivere quattro giorni di festeggiamenti indimenticabili con il suo Diamond Jubilee...
Tanti altri italiani, emigrati già dagli anni ‘50 o ‘60, hanno gli stessi sentimenti e si uniscono all’unisono al popolo inglese, con ammirazione e affetto. Così i giornali, a conclusione di una maratona di avvenimenti che hanno saputo mettere insieme – arte tutta inglese – lo stile formale e l’informale, il popolare e l’aristocratico allo stesso tempo, esclamano: “It is absolutely wonderful”, “That’s what one calls a party!” (Questa sì che si chiama una festa!).
E d’altronde, tra gli eventi maggiori vi sono stati: una regata di mille imbarcazioni sul Tamigi, un maxi-concerto di musica rock, pop e classica, un pick-nick gigante nei giardini di Buckingam Palace, una celebrazione alla cattedrale anglicana di St Paul, il classico saluto dal balcone, la comparsa finale delle Red Arrows, le frecce tricolori inglesi. Una favola, che migliaia seguivano incantati. Dappertutto e in tutte le fogge la bandiera nazionale e l’immagine della regina. Nel mezzo di una crisi finanziaria che avanza a grandi passi anche in terra inglese è stato il tempo di un sogno collettivo. Tuttavia con una sua concretezza popolare.
Anche nel nostro square e in tantissimi altri un gruppo musicale animava il quartiere. Ed era quel senso popolare che ricorda i festeggiamenti in Francia per il 14 luglio, la festa della Repubblica. Avvenimenti maggiori di grande idealità, “very inspiring” direbbero gli inglesi, vissuti a cascata anche negli ambiti e negli strati più popolari. Dinamica sconosciuta da noi in Italia, dove il particolarismo rinchiude la festa nel proprio territorio.
Questi sessant’anni di regno non significano celebrare la solitudine di un leader ma, ricordava la regina nel suo discorso finale di ringraziamento, diventano un momento di orgoglio nazionale per la propria storia, le proprie tradizioni e il proprio popolo. Si ritrovano insieme due direttrici di senso, una verticale e una orizzontale. Una affonda nella storia del dopoguerra in poi, l’altra si allarga a tutte i Paesi del Commonwealth. In questo il simbolo regale di unità interviene in tutto il suo valore e splendore. La regina, infatti, non lo è solo di un’isola, come può sembrare erroneamente a noi. Ed è un amplissimo arco di tempo che gli inglesi, cultori della memoria e delle tradizioni, rivivono in questo volto, commovendosi nel vedere passare sopra Buckingham Palace i bombardieri Lancaster della seconda guerra mondiale.
Elisabetta II rivive in piena coscienza questa consacrazione - notavano i giornali - al pari di un antico re della rivale Francia. Alla cattedrale di St Paul, poi, si trovava di fronte Rowan Williams, la figura del primate di tutta la chiesa anglicana nel mondo, che ha deciso a sorpresa di concludere il suo mandato per dicembre prossimo. Altra concezione di servizio e di unità, senz’altro più moderna, dove il tempo ne segna il limite e il valore. A dire il vero, morire da regina o da re è un privilegio che la tradizione adora; non vi era anticamente nulla di più esaltante che gridare: “Le Roi est mort. Vive le Roi!”. Un Giubileo di diamante come questo illumina le nostre vite per gli anni a venire, concludeva la regina. Evidentemente, ancora la forza della tradizione. Fino in fondo.
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