La sentenza riguarda i lavoratori di Pomigliano e sta scatenando polemiche e divisioni sindacali. A Termini Imerese, intanto, non decolla il nuovo piano di industrializzazione di Invitalia.
Città Nuova - Il tribunale civile di Roma, rifacendosi a una normativa europea, ha condannato la Fiat ad assumere un certo numero di operai (145) di Pomigliano d’Arco iscritti alla Fiom, che riceveranno anche tremila euro a titolo di risarcimento per la discriminazione subita. Secondo il giudice si tratta, infatti, del danno non economico provocato dal comportamento della multinazionale dell’auto, che ha deciso di aprire una nuova azienda con il nome FIP (Fabbrica italiana Pomigliano spa), dedicata alla produzione della nuova Panda, riservandosi di assumere, man mano, i dipendenti in cassa integrazione della storica fabbrica dell’Alfa rilevata dalla Fiat.
Stesso azionista di riferimento e due fabbriche con un contratto metalmeccanico diverso. Secondo gli statistici chiamati come consulenti dal tribunale, il fatto che tra i duemila e 71 dipendenti richiamati, su un totale di cinquemila, non ci sia nessuno iscritto alla Fiom rappresenta una coincidenza fortuita solo in un caso su milioni di possibilità.
La versione ufficiale del gruppo della famiglia Agnelli insiste nell’affermare che la FIP non conosce l’iscrizione o meno al sindacato degli operai e quindi non può discriminare. Di fatto, il numero dei lavoratori con la tessera Fiom continua a diminuire tra i dipendenti in cassa integrazione, che denunciano l’esistenza di una campagna di pressione psicologica indirizzata anche verso i familiari. Nel dare l’annuncio della sentenza favorevole, il segretario generale della Fiom, Landini, non ha trattenuto la commozione, ma il commento prevalente degli esperti esprime una diffusa preoccupazione circa le reali intenzioni della Fiat, che potrebbe trovare lo spunto per affrettare la prevedibile delocalizzazione dell’attività fuori dai confini nazionali.
Già a metà giugno l’amministratore delegato della Fiat, Sergio Marchionne, in qualità di presidente dei costruttori di auto europei, ha annunciato che la crisi del mercato nel vecchio continente porterà a tagliare gli investimenti del gruppo per 500 milioni di euro nel 2012. Analisti storici della Fiat come Giuseppe Berta parlano apertamente di «un progressivo allontanamento dall’orbita dell’Italia della maggiore delle sue imprese», che ha origini non recenti come effetto di una vera e propria «deriva industriale». Casi non lontani come la chiusura annunciata dell’Indesit di None, nel torinese, ne sono una conferma.
Altri sindacati hanno manifestato una viva contrarietà verso la decisione dei giudici («le aziende scappano») perché la ritengono «vessatoria» e discriminatoria nei confronti dei propri iscritti. Così decisamente la Fismic, nata a suo tempo da una scissione dalla Cisl, che sta mietendo consensi superiori a FimCisl e Uilm nelle elezioni dei rappresentanti sindacali nel gruppo automobilistico.
Una situazione di divisione e conflitto tra i lavoratori, destinata a creare contrasti pericolosi all’interno delle fabbriche del settore metalmeccanico, al di là della stessa Fiat.
E intanto in Sicilia
Nel frattempo in Sicilia, a Termini Imerese, non decolla il nuovo piano di industrializzazione individuato dall’agenzia pubblica Invitalia. L’azienda molisana DR Motors non sembra avere le risorse necessarie per ottimizzare i 350 milioni di contributi, assicurati dagli enti locali, per agevolare la nuova attività industriale nel sito abbandonato a fine 2011 dalla Fiat, mentre stentano ad affacciarsi investitori esteri.
D’altra parte, solo poco tempo addietro, nel pieno delle polemiche sul trasferimento della linea di produzione delle Y10 in Serbia, la dirigenza torinese aveva fatto riferimento alla presenza di anomali picchi di assenteismo dei lavoratori di Termini. Un biglietto da visita che pesa più di una sentenza e che contrasta con precedenti giudizi lusinghieri sulla professionalità delle maestranze siciliane che dovrebbe, invece, attirare l’interesse di imprese internazionali già allarmate per ragioni infrastrutturali e ambientali.
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