Delusione tra gli attivisti: 'Prendiamo atto, riconosciamo, ci auguriamo, cercheremo' sono le formule usate più di frequente non richiamano infatti a programmi concreti
E-ilmensile - Alle 11.20 AM di Martedì 19 giugno i giornalisti sono finalmente riusciti a mettere le mani sul testo finale della conferenza sullo sviluppo sostenibile Rio+20, che a partire da domani sarà presentato ai capi di stato (o loro vice dato che Monti, Obama, Cameron, Merkel, tra gli altri, non verranno). Per oltre otto ore i delegati Onu, nonostante il negoziato fosse finito alle 2.45 AM, hanno giocato a melina, per rifinire gli oltre 283 paragrafi che lo compongono, dopo quasi una settimana di negoziati.
Questo documento, lungo 49 pagine, costituisce l’architettura fondamentale, che dovrà essere approvata dai capi di stato. E se il buongiorno si vede dal mattino, le nubi grigie, cupe sopra il Pão de Açúcar, uno dei monti di Rio, sono state un presagio lapalissiano.
Una lettura del testo infatti evidenzia subito la debolezza del linguaggio e la mancanza di azioni concrete e la proposta di quadri legalmente vincolanti, come convenzioni, trattati, o altre formule più “attuative”.
«Prendiamo atto, riconosciamo, ci auguriamo, cercheremo»: le formule usate più di frequente non richiamano infatti a programmi concreti, che potrebbero – si spera – essere aggiunti durante i prossimi giorni . Certo ci si auspica «di eradicare per sempre la povertà» (Par.2), di «porre fine ai combustibili fossili » (Par. 225) , di prendere atto della necessità di uno sviluppo sostenibile del lavoro, specie per i giovani» (Par. 25), di sottolineare «la crisi persistente dei cambiamenti climatici e la sua gravità» (Par. 26), auspicando «un’azione più ambiziosa».
Il linguaggio è inspirante, idealista, illuminante. 50 anni fa sarebbe stato rivoluzionario. Oggi sembra una serie di dichiarazioni generiche, poco propense all’azione deve i capi di stato potranno costruire proposte e dichiarazioni commisurate agli interessi nazionali. La genericità del documento certo permette potenziali sorprese. Ma per il momento la barra del timone pare tristemente stabile, direzionata ad una mediocre realpolitick stile XX secolo, che non tiene contro dell’urgenza di azioni a breve-medio termine (sicurezza alimentare, oceani, povertà, clima).
I negoziatori tendenzialmente hanno accolto il testo usando formule di rito, senza accese passioni (con eccezione dei brasiliani che cercano il merito per avere mantenuto in vita le discussioni dopo che nel weekend s’erano affossate). «Siamo soddisfatti» ha commentato il laconico Du Ying, chairman della delegazione cinese. «Ringraziamo il Brasile per aver creato le giuste fondamenta per questo incontro». Ed è proprio Pechino che qua a Rio potrebbe risollevare le sorti della conferenza (fantastico il titolo del Telegraph: the destiny of Rio is made in China). Per Clini, che secondo il suo staff ha giocato un ruolo importante nella mediazione EU-Brasile (questa informazione non è stata verificata dalla delegazione brasiliana), inserire il termine “green economy” in un testo ONU, «significa un passo importante per lo sviluppo economico».
La parte di più rilevante è proprio la roadmap della green economy come motore dello sviluppo sostenibile. C’era un grande potenziale per creare una vero processo di sviluppo globale fondato su fonti rinnovabili, risparmio energetico, riciclo e green jobs (un tema invisibile, misteriosamente in questa conferenza, nonostante i tempi di crisi) distinto per paesi industrializzati e in via di sviluppo ma per strada si sono perse numerose opportunità. Come ad esempio quella di proporre alternative al PIL come standard per misurare lo sviluppo, oppure di creare un quadro di scambio di know how tecnologico, o una serie di obbiettivi più concreti da incorporare negli SDG (gli obbiettivi di sviluppo sostenibile).
Rimane in ogni caso un indirizzo importante per lo sviluppo futuro delle politiche ONU. Secondo il ministro italiano, Corrado Clini, il negoziato era addirittura arrivato al punto di esplodere, come successe a Copenhagen nel 2009.
Senza gol efficaci commentano vari delegati incontrati a RioCentro però l’implementazione di politiche di sviluppo si fa complicata. Gli SDG infatti mancano di obbiettivi quantificabili e di una deadline precisa. Si sa solo che ci sono tre anni di tempo (nel 2015 sostituiranno i Millennium Goals), ma almeno sono state inserite nel documenti.
Poco di fatto – visti i tempi di crisi e la difficile negozialità dell’argomento – in termini di finanziamenti per lo sviluppo. Il testo rimanda a “nuovi meccanismi nazionali, internazionali e subregionali», sottolineando il rilievo della cooperazione bilaterale e delle istituzioni internazionali come la Banca Mondiale. Una lancia spezzata quindi a favore della carbon finance, da sempre baluardo della green-economy, dove emissioni, foreste ed altre risorse naturali diventano una commodity, rispettando quindi la linea finanziaria nata con il protocollo di Kyoto. Una delle azioni decisioniste la si trova nel paragrafo sull’Agenzia per l’Ambiente delle Nazioni Unite (Par. 88 e 89). L’agenzia diventa un’autorità globale che stabilisce l’agenda ambientale e la sua implementazione, in accordo con gli stati membri.
Secondo una fonte dell’UNEP che preferisce rimanere anonima, di fatto «aver reso universale il Governing Council (il consiglio direzionale, NDA) e richiesto di aumentare i fondi “core”, vuol dire praticamente avere un’agenzia specializzata, senza averla chiamata tale. Anche se la definizione vera e propria [dovrebbe includere] richiederebbe una certa quota di assessed contributions. [La definizione] rimane punto di contesa perché Kenya ed altri nell’Africa Group vorrebbero almeno rinominarlo UN Environment Organization. Gli USA sono completamente contrari. Se gli Africani e l’UE chiedono più di quello che c’è già nel testo faranno esplodere l’accordo che in teoria è stato raggiunto stamattina ma che deve comunque ricevere il beneplacito formale dei capi di stato»
Fallito miseramente invece il tentativo di arrivare ad un risultato aggressivo nella lotta contro i sussidi ai combustibili fossili, un tema che da molti anni cerca di trovare spazio a Rio. Il mondo oggi spende quasi 700 miliardi di euro l’anno per sostenere il mercato di petrolio e carbone, risorse che potrebbero essere usati in progetti di green economy. Una gigantesca campagna lanciata da 350.org e raccolta da ONG e movimenti negli ultimi giorni, ha cercato -senza evidente successo – di chiedere un phase-out a questi sussidi. Purtroppo da rio è uscito una semplice dichiarazione d’intenti, risultato di una forte opposizione dei Paesi OPEC (Venezuela e Arabia Saudita su tutti, ma con forte appoggio del governo Canadese, che è candidato per “il paese meno green del mondo”, per il suo oltranzismo anti-ambientalista).
Furenti le Organizzazioni non governative. «Il livello di ambizione è purtroppo basso», spiega Alberto Zoratti, dell’Ong italiana Fairwatch membro della rete internazionale Climate Justice Now! «e assolutamente non all’altezza delle sfide che abbiamo davanti. Il rischio di un documento non vincolante e di principio e sotto gli occhi di tutti, ma rischia di non far fare alcun passo avanti negli impegni che sarebbero necessari per rispondere alla crisi economica, sociale e ambientale a cui assistiamo».
La questione della Green Economy rischia di essere un palliativo, perché, chiarisce ancora Zoratti «la causa delle crisi attuali è la progressiva deregolamentazione dell’economia, soprattutto finanziaria, e un aumento della libertà di azione delle imprese private che rispondono sempre più a loro obiettivi e sempre meno a norme chiare e condivise. E’ uno degli aspetti della crisi della democrazia attuale».
Per chiudere bisogna citare la dichiarazione tranchant rilasciata da Maurice Strong, primo direttore UNEP e presidente della conferenza di Rio1992 lunedì al RioCentro: «Non c’è nulla da celebrare. Siamo vicini al punto di non ritorno dall’annullamento della nostra civiltà».
Emanuele Bompan
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