La storia di un uomo che durante la guerra si è prodigato per salvare i suoi vicini può essere ancora un fardello scomodo in Bosnia Erzegovina.
E-ilmensile - La memoria va alla vicenda di Srđan Aleksić – il giovane, originario della cittadina di Trebinje, che morì nel 1992 per le percosse subite in un tentativo di salvare un suo concittadino musulmano da un gruppo di paramilitari – che solo negli ultimi anni l’opinione pubblica ha timidamente iniziato a conoscere, ma per la quale si è ancora molto lontani da un riconoscimento ufficiale. Un’altra storia simile, ancora una volta proveniente dall’Erzegovina, è quella di Neđo Galić, portata alla ribalta dal documentario Neđo od Ljubškog [Nedo di Ljubuški], del quale è autrice Svetlana Broz, nipote del Maresciallo Tito e fondatrice dell’associazione Gariwo, che da dieci anni a questa parte raccoglie storie di convivenza civile e di aiuti trasversali tra individui che sulla carta avrebbero dovuto essere nemici.
Neđo Galić, un fotografo e radio-amatore di Ljubuški, salvò durante la guerra oltre mille detenuti appartenenti ad altre etnie dal campo di concentramento Heliodrom. Avendo compreso che gli unici prigionieri a poter uscire dal campo erano coloro che ricevevano delle lettere di invito dall’estero, Neđo si prodigò per fornirne di false e per procurare loro dei documenti una volta usciti. Per questi meriti è stato insignito del premio Dusko Kondor, al “coraggio civile”.
La proiezione del film prevista alcuni giorni fa nella cittadina erzegovese a grandissima maggioranza croata, nella quale tuttora vive la vedova di Galić, scomparso nel 2010, è stata preceduta da un linciaggio mediatico: Galić è stato accusato di essere un traditore e, in quanto comunista, un nemico della nazione, della quale avrebbe avversato i simboli, gettando fango sulla Domovinski rat, la guerra patriottica degli anni Novanta.
In breve il clima ha iniziato a ribollire, con portali locali e associazioni dei veterani che chiamavano a raccolta gli abitanti di Ljubuški per impedire la proiezione del documentario. Alla fine la proiezione si è effettivamente svolta, pur in un clima di alta tensione e alla presenza di diversi gruppuscoli di estrema destra che hanno insultato i partecipanti, ma è di mercoledì sera la notizia che Štefica Galić, già da alcuni giorni bersaglio di telefonate minatorie, è stata aggredita per strada, picchiata e minacciata di morte nella cittadina erzegovese.
Se il film, come ha dichiarato l’autrice, dovrebbe essere mostrato alla Berlinale, gli eventi di questi giorni ricordano ancora una volta quale violenza scateni ogni tentativo di confronto con il passato, in special modo in quei luoghi dove gli estremismi sono tuttora come venti anni fa i protagonisti indiscussi del dibattito politico. E la memoria dell’uomo che salvò i suoi vicini da ancora fastidio.
E-ilmensile - La memoria va alla vicenda di Srđan Aleksić – il giovane, originario della cittadina di Trebinje, che morì nel 1992 per le percosse subite in un tentativo di salvare un suo concittadino musulmano da un gruppo di paramilitari – che solo negli ultimi anni l’opinione pubblica ha timidamente iniziato a conoscere, ma per la quale si è ancora molto lontani da un riconoscimento ufficiale. Un’altra storia simile, ancora una volta proveniente dall’Erzegovina, è quella di Neđo Galić, portata alla ribalta dal documentario Neđo od Ljubškog [Nedo di Ljubuški], del quale è autrice Svetlana Broz, nipote del Maresciallo Tito e fondatrice dell’associazione Gariwo, che da dieci anni a questa parte raccoglie storie di convivenza civile e di aiuti trasversali tra individui che sulla carta avrebbero dovuto essere nemici.
Neđo Galić, un fotografo e radio-amatore di Ljubuški, salvò durante la guerra oltre mille detenuti appartenenti ad altre etnie dal campo di concentramento Heliodrom. Avendo compreso che gli unici prigionieri a poter uscire dal campo erano coloro che ricevevano delle lettere di invito dall’estero, Neđo si prodigò per fornirne di false e per procurare loro dei documenti una volta usciti. Per questi meriti è stato insignito del premio Dusko Kondor, al “coraggio civile”.
La proiezione del film prevista alcuni giorni fa nella cittadina erzegovese a grandissima maggioranza croata, nella quale tuttora vive la vedova di Galić, scomparso nel 2010, è stata preceduta da un linciaggio mediatico: Galić è stato accusato di essere un traditore e, in quanto comunista, un nemico della nazione, della quale avrebbe avversato i simboli, gettando fango sulla Domovinski rat, la guerra patriottica degli anni Novanta.
In breve il clima ha iniziato a ribollire, con portali locali e associazioni dei veterani che chiamavano a raccolta gli abitanti di Ljubuški per impedire la proiezione del documentario. Alla fine la proiezione si è effettivamente svolta, pur in un clima di alta tensione e alla presenza di diversi gruppuscoli di estrema destra che hanno insultato i partecipanti, ma è di mercoledì sera la notizia che Štefica Galić, già da alcuni giorni bersaglio di telefonate minatorie, è stata aggredita per strada, picchiata e minacciata di morte nella cittadina erzegovese.
Se il film, come ha dichiarato l’autrice, dovrebbe essere mostrato alla Berlinale, gli eventi di questi giorni ricordano ancora una volta quale violenza scateni ogni tentativo di confronto con il passato, in special modo in quei luoghi dove gli estremismi sono tuttora come venti anni fa i protagonisti indiscussi del dibattito politico. E la memoria dell’uomo che salvò i suoi vicini da ancora fastidio.
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