martedì, luglio 03, 2012
Intervista con Francesco Vignarca, coordinatore di Rete disarmo sui caccia Jsf F-35. Non si tratta di 90 o 130 aerei, ma dell’idea stessa di difesa. 

Città Nuova - «Nessuno di noi vuole la guerra: ma se non ci attrezziamo anche militarmente, è impossibile oggi pensare di garantire la sicurezza. Purtroppo la violenza fa parte della complessa realtà in cui oggi viviamo». In questi termini ha risposto il 19 giugno il ministro della Difesa Di Paola, dopo la lectio magistralis, ad uno studente della Facoltà di Scienze politiche di Pavia che ha fatto notare come «con il costo di un caccia F-35 si potrebbero pagare le borse di studio di tutti gli universitari italiani».

Da questione confinata a esercizio retorico, la questione degli aerei da combattimento che l’Italia si è impegnata ad acquistare continua ad alimentare un dialogo non banale, anche se una persona comune, di fronte ai numeri impressionanti dei finanziamenti dedicati alle armi, si scoraggia e pensa: ma io che posso fare?

Anche gli appelli lanciati in diverse occasioni sono rimaste senza risposta. Abbiamo dato, per esempio, su "Città Nuova", notizia di un invito lanciato da alcune realtà cattoliche fiorentine ad Andrea Riccardi, perché esprimesse nel Consiglio dei ministri le istanze di chi vuole una politica di difesa diversa, ma il ministro della Cooperazione internazionale ha potuto solo dire di condividere le intenzioni senza, di fatto, poter incidere sull’azione dell’esecutivo. Ne parliamo con Francesco Vignarca, coordinatore di Rete disarmo, realtà che vede lavorare assieme un numero significativo di associazioni e movimenti, dalle Acli ad Amnesty International, dall’Arci all’Associazione papa Giovanni XXIII, tanto per intenderci.

Alla fine il governo ha deciso di procedere all’acquisto di 90 caccia bombardieri della Lockeed Martin, invece dei 131 programmati. Sembra più un taglio alle spese, fisiologico in tempi di crisi, che la conseguenza di un’azione di pressione della società civile. E poi non cambia la sostanza, visto che è proprio l’intera commessa degli aerei da combattimento che va riesaminata, secondo voi... 

«Il taglio mi sembra molto di facciata. Per assicurare certe commesse alle aziende italiane, infatti, l’accordo prevedeva un minimo di 100 arerei da acquistare. Quindi è prevedibile che il numero sia destinato a risalire. Ma non si tratta di avere una riduzione come contentino di una trattativa. Più in generale va contestata l’idea che non si possa cambiare nulla. Anzi è proprio quando la situazione sembra senza soluzione che arriva il punto di rottura e si comprende che bisogna cambiare paradigma, cioè il modo di affrontare il problema».


Siete accusati di essere ideologici…  
«Faccio un esempio. Il ministro della Difesa, l’ammiraglio Di Paola, ha affermato che sui caccia Jsf F-35 è stata fatta troppa ideologia e subito dopo ha detto che questi aerei sono necessari per le nostre Forze Armate, senza aggiungere altri dati o motivazioni. Parte da un assioma senza alcuna giustificazione. Mi chiedo: chi è che fa un discorso ideologico? Noi abbiamo sempre ricercato il dialogo e fornito numeri e studi approfonditi, arrivando a correggere i dati dello stesso ministero».


Ad esempio? 
«Il caso più eclatante è stata la smentita della tesi ripetuta più volte sull’enorme penale sottoscritta dall’Italia in caso di fuoriuscita dal programma di acquisto stipulato con la Lockeed Martin. Con un dossier su "Altreconomia", abbiamo tradotto e studiato l’accordo quadro sottoscritto nel 2007 dal sottosegretario Forcieri, al tempo del governo Prodi, scoprendo che la penale non esiste, come vuole ogni buona prassi commerciale quando si maneggiano questi numeri. Non c’è nulla di definito e irreversibile, ma solo un impegno di spesa».


Dei soldi sono già usciti, però...  
«Certo. Almeno 800 milioni per la base aerea di Cameri a Novara e due miliardi di euro per le spese di progettazione e sviluppo nelle prime fasi del programma».


Ma quale alternativa reale proponete? Il disarmo unilaterale? 
«Siamo convinti dell’inutilità e dannosità del mantenimento della pace tramite la rincorsa agli armamenti, ma anche tralasciando tutte le nostre proposte sui corpi civili di pace, siamo in grado di consigliare alternative realistiche all’interno del quadro attuale. Il caccia F-35, per intenderci, non è idoneo come strumento militare, ma risponde ad altre logiche. Si tratta di uno strumento sovrabbondante. Di uno spreco. Basterebbe ascoltare cosa avviene negli Usa dove le stesse fonti militari hanno rivelato che l’intero progetto non è stato protetto in questi anni dalla cyber war: in sostanza i cinesi sono riusciti a trafugare quei segreti dell’aereo da combattimento che lo rendono “invisibile”».


Su questo punto sembra che le vostre analisi collimino con alcune voci del mondo militare. 
«Sono dello stesso avviso analisti del settore come Gianadrea Gaiani che, da tempo, osserva come dal punto di vista tecnologico, la scelta di acquisto degli F35 ci mette nelle mani degli Usa che potrebbero decidere in qualsiasi momento di togliere autonomia alla nostra difesa aerea».


Rimane la domanda: qual è l’alternativa? 
«Ai nostri interlocutori istituzionali diciamo: se proprio pensate che l’Aeronautica abbia bisogno di nuovi caccia, allora continuate sul progetto degli Eurofighter, che hanno un miglior ritorno in termini industriali e non sono dei caccia di attacco. Non possono essere utilizzati, cioè, per le missioni di proiezione internazionale, che sono il vero obiettivo della politica militare che avviene, ed è molto grave, senza alcuna discussione pubblica. Quando si decide di armare i droni (aerei senza pilota, ndr) vuol dire che l’Italia vuol dimostrare di avere la capacità di colpire obiettivi in tutto il mondo. La dotazione dei caccia Jsf F-35 rientra in questa prospettiva, che necessita del rapporto di fornitura stretto con gli Usa, perché senza la loro base logistica gli stessi velivoli non sono efficaci. Ciò sembra in diretta contraddizione con il progetto di un esercito europeo di difesa che avrebbe come effetto di ridurre notevolmente le spese militari complessive. Secondo quale logica la Grecia possiede attualmente un numero di carri armati superiore a quello della Gran Bretagna?»


Ma di fronte ad un attacco, che fare? Le ipotesi riguardano il caso della Corea del Nord o il possibile conflitto tra Israele e Iran. Che dite in questi casi? 
«È chiaro che se si persiste con la politica della tensione a livello internazionale l’esito è già scontato. Come un fumatore incallito destinato a morire di tumore. Ma occorre sempre distinguere tra uso della forza e quello della violenza. Posso separare due litiganti senza massacrarli. Mettermi in mezzo in maniera non remissiva, ma decisa».


Come Alex Langer al tempo della ex Jugoslavia che, da autentico uomo di pace, fu accusato di essere guerrafondaio? 
«Mettersi in mezzo in quel caso ha voluto dire andare sotto le bombe e condividere la condizione dei più deboli. Non tanto organizzare una tavola rotonda. Il fatto è che la guerra non funziona, porta solo distruzione. È un dato di fatto. Non si tratta di fare le anime belle».


Eppure qualcuno afferma che una guerra sarebbe la soluzione alla crisi economica come è avvenuto negli anni Trenta. 
«Una tesi senza senso, che non ha valore nel mondo interconnesso in cui viviamo. Diversamente possiamo dire che una guerra consolida posizioni di potere acquisto da parte di alcuni, ma non è certo la soluzione».


Anche la vostra ricerca del dialogo con le istituzioni nasce da questa ricerca di nuove vie di uscita? 
«Interlocutori significativi si rivelano sempre gli enti locali che riescono a sviluppare una diplomazia internazionale dal basso, ma in ogni occasione cerchiamo sempre di confrontarci pubblicamente, come avviene in tanti incontri pubblici, anche con i vertici delle forze armate. Sono così persuaso della ragionevolezza e sensatezza delle nostre tesi che voglio discuterle e condividerle con tutti».


di Carlo Cefaloni


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