mercoledì, agosto 01, 2012
“Oggi siamo al terzo giorno di cammino e abbiamo già percorso 65 chilometri dalla nostra partenza da Reggio Emilia. A Parma ci siamo fermati dai missionari saveriani, ieri siamo stati ricevuti dal sindaco di Fidenza e entro stasera arriveremo a Piacenza. La strada è ancora lunga fino a Bruxelles ma lungo il percorso non ci stancheremo di chiedere giustizia, pace e riconciliazione per la Repubblica democratica del Congo” dice alla MISNA l’ingegnere informatico congolese John Mpaliza, in un momento di pausa del suo terzo pellegrinaggio per la pace nel suo paese, dopo le due precedenti fatiche che hanno avuto come traguardo Santiago de Compostela e Roma.

Misna - Mille e seicento chilometri a piedi fino a Bruxelles, con il patrocinio del Senato della Repubblica italiana, per chiedere alle istituzioni europee di passare delle parole ai fatti. Ad accompagnare John lungo un cammino che durerà quasì due mesi ci sono il camerunense Simon, il peruviano Marcelo e l’italiano Giordano. “Purtroppo l’obiettivo della nostra marcia – le fine della guerra e la sensibilizzazione dellacomunità internazionale – è più che mai di attualità visto l’aggravarsi della crisi nel Nord-Kivu, ora che la ribellione del Movimento del 23 marzo sta guadagnando terreno e potrebbe conquistare il capoluogo Goma con gravi conseguenze umanitarie” prosegue il giovane congolese residente a Reggio Emilia, esprimendo “soddisfazione” per il fatto che le responsabilità del Rwanda nell’est del Congo siano finalmente uscite allo scoperto da rapporti diffusi di recente dall’Onu. “Il mio paese continua a subire un’aggressione scatenata sulla base di interessi economici per le risorse minerarie, ora basta dopo i sette milioni di morti negli ultimi 20 anni – sottolinea John – convinto che per interrompere la catena di violenza la comunità internazionale deve uscire dal silenzio o meglio passare dalle parole ai fatti con pesanti sanzioni e isolamento diplomatico di Kigali”. Oltre alle responsabilità del vicino Rwanda, di una parte della classe politica congolese c’è anche “l’inutilità della missione Onu, la Monusco”, la più pagata e importante in termini numerici ma che “non protegge affatto i civili da violenze e violazioni”.

A migliaia di chilometri di distanza, nel paese di origine di John, a prendere l’iniziativa sono anche i vescovi congolesi: da ieri hanno lanciato una serie di manifestazioni per dire no alla balcanizzazione del paese e in segno di solidarietà con le popolazioni martoriate dell’est. Sono previste giornate di preghiera e di meditazione nelle parrocchie cattoliche, come quella cominciata ieri a Isiro (Provincia Orientale), campagne di sensibilizzazione, raccolta fondi per vittime e sfollati del conflitto, visite pastorali nelle diocesi colpite e una marcia di protesta. Tuttavia potrebbe slittare la marcia prevista per domani a Kisangani: secondo l’emittente locale ‘Radio Okapi’ le autorità locali sostengono di “non essere state avvisate formalmente dell’organizzazione della manifestazione”. Eppure la Conferenza episcopale nazionale del Congo (Cenco) “si è rivolta da tempo al ministero dell’Interno che ha dato il suo via libera e che avrebbe dovuto informare le autorità provinciali su come gestire la manifestazione” ha dichiarato padre Marcien Babikanag, presidente della commissione Giustizia e Pace della diocesi di Kisangani.

Dall’inizio degli scontri tra ribelli del M23 e soldati regolari, cominciati a fine aprile, più di 200.000 persone hanno abbandonato la provincia del Nord-Kivu, di cui 30.000 si sono rifugiate in Uganda e Rwanda.

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