Attraverso il registro delle unioni civili, le coppie di fatto potranno accedere a quei diritti e servizi sociali tradizionalmente riservati alle coppie coniugate. Più diritti per tutti o discriminazioni al rovescio in danno delle coppie sposate?
“Abbiamo ridotto lo spread con l’Europa sui diritti civili”: così il sindaco Pisapia ha salutato l’approvazione (il 27 luglio) del Regolamento per il riconoscimento delle unioni civili da parte del Consiglio comunale. In tal modo, anche la città di Milano si dota, dopo Torino e Napoli, di un registro delle unioni civili al quale potranno iscriversi le coppie di conviventi (sia omosessuali che eterosessuali)che risiedono nel comune e che ne facciano richiesta. La sola condizione per l’iscrizione nel registro è la produzione di un attestato di famiglia anagrafica, rilasciato dall’ufficiale dell’anagrafe. Questo piccolissimo incombente burocratico – si prescinde persino dall’accertamento di un periodo minimo di convivenza – consentirà alle coppie di fatto di accedere a una serie di servizi garantiti dal comune alle coppie sposate, soprattutto nelle seguenti aree di intervento: casa; sanità e servizi sociali; giovani, genitori e anziani; sport e tempo libero; formazione, scuola e servizi educativi; diritti e partecipazioni; trasporti (ma l’elenco è puramente esemplificativo). La funzione del registro è significativamente individuata dallo stesso Regolamento nell’esigenza di “tutelare e sostenere le unioni civili, al fine di superare situazioni di discriminazione e favorirne l’integrazione e lo sviluppo nel contesto sociale, culturale ed economico del territorio”. Di per sé, quindi, il registro delle unioni civili non attribuisce alcun diritto (l’affermazione del sindaco Pisapia circa la riduzione dello “spread” europeo sui diritti appare da questo punto di vista trionfalistica e un tantino immotivata), ma consente al comune di progettare interventi di sostegno, sul piano delle politiche sociali, alle coppie di fatto. . I diritti arriveranno eventualmente con l’attuazione di siffatti interventi.
In compenso, l’introduzione del registro delle unioni civili presenta un’elevata valenza simbolica, inserendosi all’interno di una più generale tendenza volta ad equiparare alla famiglia legittima, quella fondata sul matrimonio, relazioni affettive tra le più varie basate su vincoli di mero fatto. Ciò che ripugna, ai fautori di questa diffusa tendenza, è l’idea che le coppie di fatto possano subire delle discriminazioni nei confronti delle coppie coniugate per quel che attiene al godimento di taluni diritti derivanti dal matrimonio. E, per rimediare alla lamentata disparità di trattamento e ristabilire condizioni di eguaglianza, si propone di ricondurre all’interno di una comune e generica categoria (quella delle unioni civili) fenomeni sociali ampiamente eterogenei, quali da un lato le convivenze more uxorio e le famiglie di fatto e dall’altro le unioni omosessuali, il cui solo elemento comune parrebbe essere quello della sussistenza di un legame affettivo tra i membri. In tal modo, però, come è facile osservare, si pongono le premesse per un sostanziale svuotamento del principio di eguaglianza: tale principio, infatti, vieta di trattare in maniera diversa situazioni uguali, ma non di differenziare la disciplina giuridica di fattispecie obiettivamente differenti.
Che le convivenze more uxorio (intendendo con questa espressione le relazioni stabili e durature tra un uomo e una donna non uniti in matrimonio) non siano assimilabili al rapporto coniugale se non sotto l’aspetto esteriore è dimostrato dal fatto che queste, pur riproducendo in fatto alcune caratteristiche del matrimonio, non risultano fondate su vincoli giuridici. Tra i partner di fatto non sussistono obblighi reciproci di fedeltà, di assistenza morale e materiale, di coabitazione e di contribuzione ai bisogni propri e della famiglia, come invece tra i coniugi. Anzi, una delle ragioni che possono indurre una coppia a non sposarsi è proprio quella di sfuggire in tutto o in parte a tali obblighi (si pensi ad esempio al modo in cui certe coppie “aperte” concepiscono il dovere di fedeltà) o comunque di regolare la vita in comune senza i lacci e i lacciuoli che il vincolo coniugale comporta, soprattutto nella fase “patologica” del rapporto (i conviventi more uxorio, quando si stancano di stare insieme, possono semplicemente andare ciascuno per la propria strada senza dover sottostare alle lunghe ed estenuanti procedure di separazione e di divorzio, pur previste dal legislatore al fine di fronteggiare le crisi familiari). E’ naturale che alla disparità sul piano dei doveri corrisponda una disparità sul piano dei diritti: nessuna discriminazione, quindi, ma una disparità di trattamento del tutto giustificata e ragionevole. In ogni caso, per rimediare a questa disparità, i conviventi non dovrebbero far altro che sposarsi, accedendo così a quei diritti che prima si erano visti negare: eguali diritti, ma anche eguali doveri. Ove, al contrario, si estendessero ai conviventi di fatto i diritti spettanti alle coppie coniugate si realizzerebbe una discriminazione in danno di queste ultime. Certo, si potrebbe pensare a soluzioni “intermedie” dirette a compensare l’attribuzione di diritti ai conviventi di fatto con la previsione di corrispondenti doveri. In tal modo, però, si finirebbe con l’applicare una disciplina “paramatrimoniale” alle coppie di fatto “riconosciute civilmente”, facendo delle “unioni civili” una sorta di “matrimonietto di serie B” potenzialmente idoneo ad entrare in concorrenza con l’istituto matrimoniale propriamente detto. Il risultato sarebbe dunque quello di un ulteriore indebolimento dell’istituto matrimoniale con i prevedibili effetti negativi sul piano della stabilità familiare e della tenuta del tessuto sociale (già ampiamente compromesso da stili di vita ispirati ad un esasperato individualismo).
Quanto sinora rassegnato a proposito delle convivenze more uxorio ovviamente, non può valere per le unioni omosessuali, alle quali l’accesso all’istituto matrimoniale (con il conseguente acquisto dello status coniugale e dei connessi diritti e doveri) è precluso dalla Costituzione, come anche la Corte costituzionale ha di recente ricordato (sentenza n. 138/2010). Viene quindi il sospetto che il registro delle unioni civili risponda più che altro ad un progetto di riconoscimento pubblico delle unioni omosessuali, portato avanti con convinzione dai movimenti gay (quegli stessi che non a caso hanno “preso d’assalto” la sala del consiglio comunale ambrosiano nel lungo dibattito che precedette l’approvazione del Regolamento delle unioni civili). Anche in questo caso si sostiene che non bisogna discriminare tra coppie etero e coppie gay, ma, ad essere onesti, se una parvenza esteriore di matrimonio e di famiglia le convivenze more uxorio sembrano possederla (specie se con figli), questo aspetto nelle unioni omosessuali manca del tutto. Ci si chiede allora se la retorica della “differenza zero” in futuro porterà a situazioni per cui il comune, ad esempio, nel garantire il diritto alla casa “senza discriminazioni”, preferirà assegnare un alloggio di edilizia economico-popolare ad una coppia omosessuale piuttosto che ad una coppia di giovani sposi, ancora in attesa di figli.
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È presente 1 commento
Basta..non se ne può più di questo chiacchiericcio, con tutti i problemi con cui NOI CATTOLICI dobbiamo misurarci!!...ci sono tante coppie che, per tanti motivi, si trovano a convivere in modo anche più stabile e fedele di tante "felicemente sposate"...con che coraggio ci possiamo permettere di dire che riconoscere alcuni loro diritti minaccia quelli della famiglia tradizionale?!?Ripeto, pensiamo a cose più serie, la povertà, le guerre e liberiamioci da questi discorsi salottieri!:)
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