La squalifica di Antonio Conte solleva molti dubbi, ma non si può demandare ai tribunali il ritorno all’essenza del calcio: gioco, passione, divertimento, fair play. Ce lo insegna anche il pugile Cammarelle
Città Nuova - Scanso agli equivoci. Come hanno già sottolineato i più autorevoli commentatori (sportivi e non), molto probabilmente la squalifica di 10 mesi comminata dalla Corte di giustizia della Federcalcio al tecnico della Juve, Antonio Conte, è ingiusta. L’allenatore bianconero è accusato di omessa denuncia per una combine (un patto illecito per truccare il risultato di una partita) antecedente al match fra l’AlbinoLeffe e il Siena (sua ex squadra), valido per il campionato di Serie B 2010/2011 e conclusosi col successo dei bergamaschi.
In sostanza, la Corte di giustizia federale ha dato credito alle parole di Filippo Carobbio, il centrocampista del Siena di Conte che tra illeciti sportivi e omesse denunce relativi a due diverse inchieste (Cremona e Bari) è stato squalificato per due anni e due mesi. È stato l’ex giocatore dei toscani a tirare in ballo Conte, fermato per 10 mesi nonostante le affermazioni di Carobbio non abbiano trovato riscontro nella realtà dei fatti e senza che si sia tenuto conto delle incongruità scaturite dalle diverse deposizioni del centrocampista. Inoltre, è singolare il fatto che il giocatore sia stato ritenuto credibile in merito alle affermazioni riguardanti AlbinoLeffe-Siena, ma non rispetto a quelle inerenti Novara-Siena, altro match che - in primo grado - aveva portato alla squalifica di Conte.
In pratica, il tecnico della Juve è stato prosciolto in riferimento alla seconda partita, ma non in riferimento alla prima, con una conseguente rideterminazione della sanzione. Risultato: la Juventus ha deciso di presentare ricorso presso il Tribunale nazionale di arbitrato dello sport, sperando che nel passaggio da un organo della Federcalcio (ente con il quale la Vecchia Signora è in conflitto da tempo) a uno del Coni il club bianconero possa tornare ad avere a disposizione il proprio allenatore.
Ma in tutto questo, e in tanto altro che circonda il pallone nostrano, resta la sensazione - o forse la presa d’atto - di un inarrestabile perdita di valori del calcio italiano. Siamo circondati da polemiche sui giudici e sugli arbitri, rifiutiamo di accettare le sentenze dei tribunali (esempio: Juve-Calciopoli-revoca scudetti) e quelle del rettangolo verde (e qui di esempi ce ne sarebbe un’infinità), e continuiamo a parlare di mercato quando molto spesso si tratta di pure chiacchiere da bar. Il tutto, perdendo di vista la vera essenza dello sport: gioco, passione, divertimento.
Proprio in questi giorni, su «Repubblica», Gianni Mura ha scritto: «Sul colletto interno della maglia della Juve (i tifosi bianconeri non se n’abbiano a male: è solo un esempio, ndr) c’è scritta una frase di Boniperti altamente diseducativa: “Vincere non è importante, è l’unica cosa che conta”. In Italia non sarà mai obbligatorio promuovere una cultura sportiva, questa è la nostra vera crisi». Difficile non condividere.
Concludiamo con una coincidenza altamente significativa. Sabato 11 agosto, a Pechino, il Napoli (idem come sopra: i tifosi partenopei non se n’abbiano a male, ndr) ha deciso di non presentarsi alla cerimonia di premiazione della Supercoppa italiana in segno di protesta contro i torti arbitrali (evidenti o presunti, non è questo il punto) subiti durante il match con la Juve.
Ventiquattr’ore dopo, ai Giochi di Londra, il pugile azzurro Roberto Cammarelle si è visto letteralmente scippare un meritatissimo oro da giudici palesemente «sensibili» al boxeur di casa Anthony Joshua. Lui, da vero interprete della noble art, ha incassato l’ingiusta sconfitta con enorme dignità, trovando la forza di abbozzare un mezzo sorriso sul podio e recitando pure il mea culpa per non aver saputo chiudere definitivamente il match. E allora, riprendendo le parole di Gianni Mura, forse in Italia è ancora possibile promuovere una cultura sportiva: magari uscendo dal campo e salendo sul ring.
Città Nuova - Scanso agli equivoci. Come hanno già sottolineato i più autorevoli commentatori (sportivi e non), molto probabilmente la squalifica di 10 mesi comminata dalla Corte di giustizia della Federcalcio al tecnico della Juve, Antonio Conte, è ingiusta. L’allenatore bianconero è accusato di omessa denuncia per una combine (un patto illecito per truccare il risultato di una partita) antecedente al match fra l’AlbinoLeffe e il Siena (sua ex squadra), valido per il campionato di Serie B 2010/2011 e conclusosi col successo dei bergamaschi.
In sostanza, la Corte di giustizia federale ha dato credito alle parole di Filippo Carobbio, il centrocampista del Siena di Conte che tra illeciti sportivi e omesse denunce relativi a due diverse inchieste (Cremona e Bari) è stato squalificato per due anni e due mesi. È stato l’ex giocatore dei toscani a tirare in ballo Conte, fermato per 10 mesi nonostante le affermazioni di Carobbio non abbiano trovato riscontro nella realtà dei fatti e senza che si sia tenuto conto delle incongruità scaturite dalle diverse deposizioni del centrocampista. Inoltre, è singolare il fatto che il giocatore sia stato ritenuto credibile in merito alle affermazioni riguardanti AlbinoLeffe-Siena, ma non rispetto a quelle inerenti Novara-Siena, altro match che - in primo grado - aveva portato alla squalifica di Conte.
In pratica, il tecnico della Juve è stato prosciolto in riferimento alla seconda partita, ma non in riferimento alla prima, con una conseguente rideterminazione della sanzione. Risultato: la Juventus ha deciso di presentare ricorso presso il Tribunale nazionale di arbitrato dello sport, sperando che nel passaggio da un organo della Federcalcio (ente con il quale la Vecchia Signora è in conflitto da tempo) a uno del Coni il club bianconero possa tornare ad avere a disposizione il proprio allenatore.
Ma in tutto questo, e in tanto altro che circonda il pallone nostrano, resta la sensazione - o forse la presa d’atto - di un inarrestabile perdita di valori del calcio italiano. Siamo circondati da polemiche sui giudici e sugli arbitri, rifiutiamo di accettare le sentenze dei tribunali (esempio: Juve-Calciopoli-revoca scudetti) e quelle del rettangolo verde (e qui di esempi ce ne sarebbe un’infinità), e continuiamo a parlare di mercato quando molto spesso si tratta di pure chiacchiere da bar. Il tutto, perdendo di vista la vera essenza dello sport: gioco, passione, divertimento.
Proprio in questi giorni, su «Repubblica», Gianni Mura ha scritto: «Sul colletto interno della maglia della Juve (i tifosi bianconeri non se n’abbiano a male: è solo un esempio, ndr) c’è scritta una frase di Boniperti altamente diseducativa: “Vincere non è importante, è l’unica cosa che conta”. In Italia non sarà mai obbligatorio promuovere una cultura sportiva, questa è la nostra vera crisi». Difficile non condividere.
Concludiamo con una coincidenza altamente significativa. Sabato 11 agosto, a Pechino, il Napoli (idem come sopra: i tifosi partenopei non se n’abbiano a male, ndr) ha deciso di non presentarsi alla cerimonia di premiazione della Supercoppa italiana in segno di protesta contro i torti arbitrali (evidenti o presunti, non è questo il punto) subiti durante il match con la Juve.
Ventiquattr’ore dopo, ai Giochi di Londra, il pugile azzurro Roberto Cammarelle si è visto letteralmente scippare un meritatissimo oro da giudici palesemente «sensibili» al boxeur di casa Anthony Joshua. Lui, da vero interprete della noble art, ha incassato l’ingiusta sconfitta con enorme dignità, trovando la forza di abbozzare un mezzo sorriso sul podio e recitando pure il mea culpa per non aver saputo chiudere definitivamente il match. E allora, riprendendo le parole di Gianni Mura, forse in Italia è ancora possibile promuovere una cultura sportiva: magari uscendo dal campo e salendo sul ring.
Cesare Cielo
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