Un giovane seminarista messicano, Erick Bolaños, ci descrive una breve esperienza missionaria in una comunità italiana fatta di nostri vecchi emigrati in Inghilterra
“Anche lo Stato italiano ci abbandona!” gridava una donna anziana il giorno della marcia di protesta contro la chiusura del Consolato italiano a Bedford. Ero lì a guardare. Queste parole mi facevano pensare immediatamente a Mons. Scalabrini, quando leggeva le lettere di famiglie piacentine emigrate, che oltreoceano si sentivano abbandonate come bestie. O alla stazione di Milano, dove incontrava un quantità enorme di povera gente, pronta a emigrare. Abbandonata a se stessa.
Ho visto me, scalabriniano e messicano, trovarmi in quella stessa situazione. A questo corteo c’era gente con le mani ruvide dal lavoro a cottimo nelle fabbriche di mattoni, con le occhiaie stanche, con il cuore diviso tra una nazione che li aveva “solo visti partire” e un’altra che li aveva accolti, non senza far sentire loro il peso di essere stranieri.
A Bedford ho passato un mese di stage pastorale. Vi ho ritrovato il senso delle origini del carisma scalabriniano: i volti dei migranti. Ho seguito una splendida processione annuale, che qui chiamato “la festa dei santi”. Era una cosa straordinaria veder passare tutti questi emigranti, fieri di sé, portando i loro santi italiani attraverso una città inglese. Oppure alla messa nella loro lingua o al bar della missione. Così, a Londra o a Bedford, li ho visti celebrare la vita, l'amicizia, l’essere amati, ricordati, benvenuti. In mezzo a loro, come sempre, i nostri missionari.
“Un sacerdote italiano è sempre un sacerdote italiano!” diceva uno di loro, a una messa funebre presieduta da un prete inglese. Come per dire l’importanza essenziale di essere della medesima pasta. Della medesima cultura. Per cui mi chiedevo: “E se domani in questa comunità italiana arrivasse un missionario vietnamita o filippino?”. Veramente, ne guadagnerebbe il senso del mondo. E la grandezza del cuore.
La breve esperienza estiva in Inghilterra, mi ha fatto riflettere sulla figura del missionario, che non è un funzionario pubblico con un lavoro fatto in certi momenti e periodi dell’anno: è un pastore che ama il suo gregge. Vive e si commuove con il suo popolo. Ama la comunità come fosse un padre. “Padre!”, sentivo chiamare padre Mario ad ogni momento. E mi dicevo tra me: "Non è, in fondo, che la verità!". Dio benedica le nostre missioni.
“Anche lo Stato italiano ci abbandona!” gridava una donna anziana il giorno della marcia di protesta contro la chiusura del Consolato italiano a Bedford. Ero lì a guardare. Queste parole mi facevano pensare immediatamente a Mons. Scalabrini, quando leggeva le lettere di famiglie piacentine emigrate, che oltreoceano si sentivano abbandonate come bestie. O alla stazione di Milano, dove incontrava un quantità enorme di povera gente, pronta a emigrare. Abbandonata a se stessa.
Ho visto me, scalabriniano e messicano, trovarmi in quella stessa situazione. A questo corteo c’era gente con le mani ruvide dal lavoro a cottimo nelle fabbriche di mattoni, con le occhiaie stanche, con il cuore diviso tra una nazione che li aveva “solo visti partire” e un’altra che li aveva accolti, non senza far sentire loro il peso di essere stranieri.
A Bedford ho passato un mese di stage pastorale. Vi ho ritrovato il senso delle origini del carisma scalabriniano: i volti dei migranti. Ho seguito una splendida processione annuale, che qui chiamato “la festa dei santi”. Era una cosa straordinaria veder passare tutti questi emigranti, fieri di sé, portando i loro santi italiani attraverso una città inglese. Oppure alla messa nella loro lingua o al bar della missione. Così, a Londra o a Bedford, li ho visti celebrare la vita, l'amicizia, l’essere amati, ricordati, benvenuti. In mezzo a loro, come sempre, i nostri missionari.
“Un sacerdote italiano è sempre un sacerdote italiano!” diceva uno di loro, a una messa funebre presieduta da un prete inglese. Come per dire l’importanza essenziale di essere della medesima pasta. Della medesima cultura. Per cui mi chiedevo: “E se domani in questa comunità italiana arrivasse un missionario vietnamita o filippino?”. Veramente, ne guadagnerebbe il senso del mondo. E la grandezza del cuore.
La breve esperienza estiva in Inghilterra, mi ha fatto riflettere sulla figura del missionario, che non è un funzionario pubblico con un lavoro fatto in certi momenti e periodi dell’anno: è un pastore che ama il suo gregge. Vive e si commuove con il suo popolo. Ama la comunità come fosse un padre. “Padre!”, sentivo chiamare padre Mario ad ogni momento. E mi dicevo tra me: "Non è, in fondo, che la verità!". Dio benedica le nostre missioni.
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È presente 1 commento
Abbiamo avuto il piacere di conoscere Erik qui a Bedford. Persona gentile, sempre disponibile e sorridente con tutti con una grande forza d'animo e profonda spiritualita'. La Comunita' ha bisogno di giovani cosi', speriamo che ci venga a trovare presto.
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