Il libro pubblicato da Round Rubin Editrice ricostruisce il depistaggio delle indagini sull’attentato al magistrato Paolo Borsellino
di Paola Bisconti
Un’antica leggenda narra che tre fanciulle furono mandate alla deriva sull’isola delle Femmine, e dopo sette anni di segregazione furono riportate sulla costa dalle famiglie pentite per averle punite così duramente. Qui fondarono, in segno di riconciliazione, la città di Capaci, che infatti vuol dire “qui la pace”… ma le stragi del 1992 hanno segnato la fine di una tranquillità solo apparente, perché in realtà da tempo Cosa Nostra aveva piantato qui le sue radici. La storia dei magistrati, nonché amici, Falcone e Borsellino, che hanno vissuto nello stesso quartiere della Kalsa, è accomunata dalla medesima fine: una tragica morte provocata dalle bombe, un nuovo metodo che ha sostituito i colpi di lupara e pistole, una tecnica importata direttamente dall’inferno di Beirut degli anni ’70. A distanza di vent’anni ci si interroga ancora su quanto può essere stato utile il sacrificio dei due giudici se ancora non è cambiata la mentalità della gente, di chi crede per esempio che la mafia non esista.
Elena Invernizzi e Stefano Paolocci, autori del libro “Un orsacchiotto con le batterie. Il depistaggio sulla strage di via D’Amelio” pubblicato dall’editore Round Robin, hanno ripercorso ciò che è accaduto prima e dopo il tragico evento di via D’Amelio, attraverso gli atti e i verbali delle numerose interrogazioni e dichiarazioni dei collaboratori di giustizia coinvolti nella strage. La voce narrante è un magistrato siciliano che vive tra Procura e Tribunale, le carte da studiare e approfondire sono quelle all’interno del suo appartamento in un condominio, da dove osserva la vita dei vicini senza particolare interesse. All’uomo, che ogni mattina incontra Gianni il portiere intento a correre dietro al figlio che dimentica la merenda, che cerca di abbellire il proprio balcone seguendo i consigli della mamma per far germogliare le piante, che fuma ininterrottamente le sigarette mentre osserva lo splendido panorama della sua città, è affidato il racconto di quegli anni interpretati dai pentiti, come Vincenzo Scarantino, che il 24 maggio del 1995 conferma nell’aula bunker di Rebibbia: “Sono colpevole e ho deciso di dire tutta la verità sulla strage […] Sono stato un orsacchiotto con le batterie e costretto a prendere in giro lo Stato con le minacce”.
Il magistrato che racconta è consapevole di quanto sia difficile per un mafioso uscire allo scoperto, “c’è chi lo fa per avere un tornaconto e chi per calcolo magari sbagliato. Alcuni non rinnegano affatto il loro antico codice d’onore mentre altri si pentono davvero trovando la luce fuori dalla caverna”. Nei ventisei capitoli del testo è descritta una realtà complessa e più fantasiosa di un romanzo giallo dove a muovere le pedine di una scacchiera sono i boss come Totò Riina detto “u curtu”, che nella riunione dei primi di luglio nella villa di Calascibetta dove si stabilirono le dinamiche dell’attentato al giudice Paolo Borsellino dichiarava: “Chistu Borsellino fa cchiù danni che Falcone a Roma”, per poi ricevere l’appoggio da parte di Francesco Messina Denaro, boss di Castelvetrano, padre di Matteo detto “Diabolik”, che sentenziò: “Di Borsellino non deve rimanere niente, neanche le sue idee, deve andare nel dimenticatoio, deve morire e basta!”.
La morte dei due giudici siciliani ha aperto un importante capitolo di storia, e ancora si tenta di sbrogliare la matassa di una fitta trattativa tra Stato e Mafia. Gli uomini che hanno deciso di parlare, nonostante siano ritenuti degli “infami”, rappresentano i pezzi di un puzzle che si ricostruisce grazie allo sforzo di tanti “uomini giusti” come lo erano Falcone e Borsellino, ma che non si riesce mai a completare definitivamente. Cumuli di bugie riempiono i processi dove i collaboratori di giustizia “sono come su un palco di teatro: ripetono ribadiscono replicano confermano oppure contraddicono eccepiscono contestano dubitano […] è curioso come si possa affidare tanta responsabilità alle “propalazioni” di un solo individuo”.
Dietro ad un paravento da corsia d’ospedale hanno raccontato ciò che sapevano Fabio Tranchina, “capello fermo”, Gaspare Spatuzza, “u tignusu”, Salvatore Candura “Raskolnikov”, Vincenzo Calcara “uomo d’onore riservato del clan di Castelvetrano”, Giuseppe Mutulo, “baruni” oppure “mister champagne”, Massimo Ciancimino che parla di suo padre, l’ex sindaco di Palermo, e molti altri che furono protagonisti di quell’esplosione che il 19 luglio del 1992 squassò Palermo e tutta l’Italia civile. Paolo Borsellino era sempre stato consapevole del rischio che correva: lo ribadì pochi giorni prima quando, il 25 giugno, tenne il suo ultimo intervento pubblico dichiarando che c’erano stati tentativi seri per smantellare il pool antimafia fondato dal giudice Rocco Chinnici, ucciso nel 1983 dalla mafia e sostituito poi da Antonino Caponnetto, che confermò come collaboratori del pool Falcone, Borsellino, Di Lillo e Guarnotta.
Il magistrato spiega nelle 285 pagine del bel libro di come si sia sforzato di comprendere cosa scatta nell’animo di un assassino ed è per questo che nel suo lavoro è indispensabile discernere la menzogna dalla verità perché si tratta di una storia “di intrecci mai banali, di incredibili coincidenze [ …]ricca di anomalie, di innocenti finiti in galera e di colpevoli a piede libero. Magari è una storia dal nulla magari invece no”. È una storia studiata all’interno delle stanze del castello di Utveggio, da dove i mafiosi osservavano con un potente cannocchiale Borsellino e la sua famiglia. È da quel castello delle fiabe che si osservano i luoghi palermitani: capo Zafferano, la spiaggia di Mondello, Villagrazia di Carini,il vecchio porto di Hikkara, la torre della Monaca, il colle di Bellolampo, la Conca d’Oro di Palermo, il punto di Sferracavallu, la Resuttana, il Monte Pellegrino, per poi arrivare alle vie che hanno nascosto il segreto della strage, da via Messina Marine, dove si trovava l’autofficina che ha custodito la Fiat 126 poi riempita di tritolo, a Corso dei Mille, zona gestita da uno dei clan coinvolti nell’attentato. Secondo il magistrato le due vie “rappresentano l’anima di Palermo protesa agli orizzonti aperti del Mediterraneo e al contempo prigioniera della speculazione edilizia che negli anni di Vito Ciancimino ne ha fatto scempio e delle lotte fratricide della mafia”.
Il libro nelle ultime pagine ricostruisce l’ultimo giorno di vita di Paolo Borsellino, iniziato molto presto, come era suo solito fare. Quella mattina dedicò il suo tempo a rispondere alle domande inviate dalla preside di una scuola di Padova alla quale scrive: “Quando questi giovani saranno adulti avranno più forza di reagire di quanta io e la mia generazione ne abbiamo avuta”. Mentre era intento a completare l’intervista ricevette la telefonata della figlia Fiammetta che si trovava in vacanza all’estero, per quello che fu l’ultimo saluto, mentre l’ultimo insegnamento lo rivolse alla figlia Lucia, indecisa se affrontare l’esame universitario perché in arretrato con lo studio: “Non è importante il voto ma fare il proprio dovere e portarlo fino in fondo”. Proprio come ha fatto lui nella sua vita, diventando un esempio di giustizia in uno Stato che, più che essergli riconoscente, sembra averlo solo tradito…
di Paola Bisconti
Un’antica leggenda narra che tre fanciulle furono mandate alla deriva sull’isola delle Femmine, e dopo sette anni di segregazione furono riportate sulla costa dalle famiglie pentite per averle punite così duramente. Qui fondarono, in segno di riconciliazione, la città di Capaci, che infatti vuol dire “qui la pace”… ma le stragi del 1992 hanno segnato la fine di una tranquillità solo apparente, perché in realtà da tempo Cosa Nostra aveva piantato qui le sue radici. La storia dei magistrati, nonché amici, Falcone e Borsellino, che hanno vissuto nello stesso quartiere della Kalsa, è accomunata dalla medesima fine: una tragica morte provocata dalle bombe, un nuovo metodo che ha sostituito i colpi di lupara e pistole, una tecnica importata direttamente dall’inferno di Beirut degli anni ’70. A distanza di vent’anni ci si interroga ancora su quanto può essere stato utile il sacrificio dei due giudici se ancora non è cambiata la mentalità della gente, di chi crede per esempio che la mafia non esista.
Elena Invernizzi e Stefano Paolocci, autori del libro “Un orsacchiotto con le batterie. Il depistaggio sulla strage di via D’Amelio” pubblicato dall’editore Round Robin, hanno ripercorso ciò che è accaduto prima e dopo il tragico evento di via D’Amelio, attraverso gli atti e i verbali delle numerose interrogazioni e dichiarazioni dei collaboratori di giustizia coinvolti nella strage. La voce narrante è un magistrato siciliano che vive tra Procura e Tribunale, le carte da studiare e approfondire sono quelle all’interno del suo appartamento in un condominio, da dove osserva la vita dei vicini senza particolare interesse. All’uomo, che ogni mattina incontra Gianni il portiere intento a correre dietro al figlio che dimentica la merenda, che cerca di abbellire il proprio balcone seguendo i consigli della mamma per far germogliare le piante, che fuma ininterrottamente le sigarette mentre osserva lo splendido panorama della sua città, è affidato il racconto di quegli anni interpretati dai pentiti, come Vincenzo Scarantino, che il 24 maggio del 1995 conferma nell’aula bunker di Rebibbia: “Sono colpevole e ho deciso di dire tutta la verità sulla strage […] Sono stato un orsacchiotto con le batterie e costretto a prendere in giro lo Stato con le minacce”.
Il magistrato che racconta è consapevole di quanto sia difficile per un mafioso uscire allo scoperto, “c’è chi lo fa per avere un tornaconto e chi per calcolo magari sbagliato. Alcuni non rinnegano affatto il loro antico codice d’onore mentre altri si pentono davvero trovando la luce fuori dalla caverna”. Nei ventisei capitoli del testo è descritta una realtà complessa e più fantasiosa di un romanzo giallo dove a muovere le pedine di una scacchiera sono i boss come Totò Riina detto “u curtu”, che nella riunione dei primi di luglio nella villa di Calascibetta dove si stabilirono le dinamiche dell’attentato al giudice Paolo Borsellino dichiarava: “Chistu Borsellino fa cchiù danni che Falcone a Roma”, per poi ricevere l’appoggio da parte di Francesco Messina Denaro, boss di Castelvetrano, padre di Matteo detto “Diabolik”, che sentenziò: “Di Borsellino non deve rimanere niente, neanche le sue idee, deve andare nel dimenticatoio, deve morire e basta!”.
La morte dei due giudici siciliani ha aperto un importante capitolo di storia, e ancora si tenta di sbrogliare la matassa di una fitta trattativa tra Stato e Mafia. Gli uomini che hanno deciso di parlare, nonostante siano ritenuti degli “infami”, rappresentano i pezzi di un puzzle che si ricostruisce grazie allo sforzo di tanti “uomini giusti” come lo erano Falcone e Borsellino, ma che non si riesce mai a completare definitivamente. Cumuli di bugie riempiono i processi dove i collaboratori di giustizia “sono come su un palco di teatro: ripetono ribadiscono replicano confermano oppure contraddicono eccepiscono contestano dubitano […] è curioso come si possa affidare tanta responsabilità alle “propalazioni” di un solo individuo”.
Dietro ad un paravento da corsia d’ospedale hanno raccontato ciò che sapevano Fabio Tranchina, “capello fermo”, Gaspare Spatuzza, “u tignusu”, Salvatore Candura “Raskolnikov”, Vincenzo Calcara “uomo d’onore riservato del clan di Castelvetrano”, Giuseppe Mutulo, “baruni” oppure “mister champagne”, Massimo Ciancimino che parla di suo padre, l’ex sindaco di Palermo, e molti altri che furono protagonisti di quell’esplosione che il 19 luglio del 1992 squassò Palermo e tutta l’Italia civile. Paolo Borsellino era sempre stato consapevole del rischio che correva: lo ribadì pochi giorni prima quando, il 25 giugno, tenne il suo ultimo intervento pubblico dichiarando che c’erano stati tentativi seri per smantellare il pool antimafia fondato dal giudice Rocco Chinnici, ucciso nel 1983 dalla mafia e sostituito poi da Antonino Caponnetto, che confermò come collaboratori del pool Falcone, Borsellino, Di Lillo e Guarnotta.
Il magistrato spiega nelle 285 pagine del bel libro di come si sia sforzato di comprendere cosa scatta nell’animo di un assassino ed è per questo che nel suo lavoro è indispensabile discernere la menzogna dalla verità perché si tratta di una storia “di intrecci mai banali, di incredibili coincidenze [ …]ricca di anomalie, di innocenti finiti in galera e di colpevoli a piede libero. Magari è una storia dal nulla magari invece no”. È una storia studiata all’interno delle stanze del castello di Utveggio, da dove i mafiosi osservavano con un potente cannocchiale Borsellino e la sua famiglia. È da quel castello delle fiabe che si osservano i luoghi palermitani: capo Zafferano, la spiaggia di Mondello, Villagrazia di Carini,il vecchio porto di Hikkara, la torre della Monaca, il colle di Bellolampo, la Conca d’Oro di Palermo, il punto di Sferracavallu, la Resuttana, il Monte Pellegrino, per poi arrivare alle vie che hanno nascosto il segreto della strage, da via Messina Marine, dove si trovava l’autofficina che ha custodito la Fiat 126 poi riempita di tritolo, a Corso dei Mille, zona gestita da uno dei clan coinvolti nell’attentato. Secondo il magistrato le due vie “rappresentano l’anima di Palermo protesa agli orizzonti aperti del Mediterraneo e al contempo prigioniera della speculazione edilizia che negli anni di Vito Ciancimino ne ha fatto scempio e delle lotte fratricide della mafia”.
Il libro nelle ultime pagine ricostruisce l’ultimo giorno di vita di Paolo Borsellino, iniziato molto presto, come era suo solito fare. Quella mattina dedicò il suo tempo a rispondere alle domande inviate dalla preside di una scuola di Padova alla quale scrive: “Quando questi giovani saranno adulti avranno più forza di reagire di quanta io e la mia generazione ne abbiamo avuta”. Mentre era intento a completare l’intervista ricevette la telefonata della figlia Fiammetta che si trovava in vacanza all’estero, per quello che fu l’ultimo saluto, mentre l’ultimo insegnamento lo rivolse alla figlia Lucia, indecisa se affrontare l’esame universitario perché in arretrato con lo studio: “Non è importante il voto ma fare il proprio dovere e portarlo fino in fondo”. Proprio come ha fatto lui nella sua vita, diventando un esempio di giustizia in uno Stato che, più che essergli riconoscente, sembra averlo solo tradito…
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