giovedì, ottobre 04, 2012
Che Facebook inferisse, si sapeva. Ma ora usa ufficialmente il Data Mining, tecnologia a dir poco invasiva, al fine di rastrellare dalla pubblicità. Tutti i dettagli della vicenda.  

Nb Times - Sinora non l’ha mai detto apertamente, ma ora lo ha dovuto confessare: Facebook inferisce, inferisce molto in profondità nei dati che ricava dai profili dei propri utenti, e lo fa con lo strumento principe di questa attività: il Data Mining. La confessione è emersa nel corso di una conferenza tenuta da Sheryl Sandberg, Chief Operation Officer di Facebook, in cui la dirigente ha cercato di convincere i mercati pubblicitari della bontà, efficacia, efficienza e pertinenza della piattaforma pubblicitaria del portale di Mark Zuckerberg, ormai prossimo al miliardo di utenti e, nonostante ciò, non in buone acque per quanto concerne il proprio valore azionario. La conferenza si è tenuta in occasione della Advertising Week di New York, evento periodico di incontro tra domanda e offerta pubblicitaria incentrato molto sul digital advertising.

La dirigente si è prodigata in dichiarazioni tipicamente zuckerberghiane, spiegando le dinamiche comportamentali dell’utenza media, il numero medio di amici, la reattività dei gruppi sociali e i comportamenti conseguenti alle segnalazioni pubblicitarie, tanto del singolo quanto degli altri elementi socialmente connessi. Secondo quanto illustra il New York Times, nella conferenza Sheryl Sandberg è stata pressata molto dal giornalista televisivo Charlie Rose, vecchia e notoria conoscenza del mondo della TV a stelle e strisce, che incalzava sul tema della situazione finanziaria. La dirigente ha dovuto glissare completamente, dichiarando che la premura degli investitori non ha influito né sulla fiducia nell’azienda da parte dei dipendenti né sulla capacità dell’azienda stessa di creare nuovi “prodotti”.

Facebook – insiste Sandberg – può trasformare il modo in cui il mercato raggiunge il proprio pubblico perché sa esattamente chi c’è nella “audience”. Proprio ora, Facebook sta usando non solo i dati ricavati dalla profilazione dell’utenza, ma anche quelli disseminati dall’utenza stessa durante le sue frequentazioni commerciali, grazie al riconoscimento dei volti operato in alcuni esercizi: quest’ultima attività, per il solo fatto di aver destato l’attenzione della pubblica amministrazione a stelle e strisce, vuol dire che già esiste da tempo e funziona perfettamente.

L’incrocio di tali dati, ovviamente, ne porta altri ancora più “interessanti” sotto il profilo pubblicitario: questo il punto abilmente sottolineato dalla dirigente del socialportalone. La cosa interessante viene proprio ora. In conferenza, si è parlato di Datalogix, azienda che “misura gli acquisti negli store”, racconta il NYTimes, e che ora è partner di Facebook. L’azienda ha “misurato” cinque campagne, con brand di rilievo mondiale (Nestlé, Procter & Gamble e Unilever). All’atto dell’incrocio (leggasi: data mining) tra i dati degli acquisti (confermati dalle tessere fedeltà) e le campagne su Facebook, ne è emerso che il 70 per cento delle campagne social ha ottenuto incassi tre volte superiori rispetto a quelle tradizionali, pur non avendo alcun consumatore acquistato beni attraverso un’interazione diretta con le pubblicità pubblicate sul portale di Zuckerberg. Come dire: non è più il “click” che conta, ma i risultati e, per dimostrarlo, occorre inferire con strumenti adatti andando a caccia di dati, ossia eseguendo una profonda attività di data mining. Che poi, peraltro, diventa lo stesso strumento impiegato per decidere “a chi somministrare annunci su cosa, come e quando”.

 Non a caso, la partnership tra Datalogix e Facebook ha scatenato immediatamente un reclamo (PDF) alla Federal Trade Commission, presentato da Electronic Privacy Information Center. E di questo, ovviamente, all’utenza non è necessario fornire alcuna spiegazione grazie ai termini e condizioni d’uso, nei quali tale attività è contemplata, sia pure in modo molto vago.

Al momento – precisa il New York Times – le dichiarazioni della COO di Facebook non sembrano aver scucito un baffo alla borsa, che lunedì scorso ha chiuso su Facebook a 22 dollari per share. In ogni caso, “Facebook’s bread and butter is advertising”, argomenta il quotidiano usando la tipica metafora anglosassone intraducibile (vorrebbe letteralmente dire che pane e burro di Facebook è rappresentato dalla pubblicità) e il cui significato è, in maniera interpretata, che Facebook vive di sola pubblicità.

Una sola cosa è certa: è bene fare un giretto sulla propria utenza, fare molta attenzione alle varie app che circolano (che sono tra i maggiori pericoli), non concedere accesso ai propri dati a nessuna di esse (tranne a quelle ben note e che davvero si desiderano, come ad esempio quella di Twitter), verificare tutto ciò che si condivide, come lo si condivide, controllare i permessi dei propri post e messaggi (per non fare figuracce come la Francia), eccetera, eccetera. E chi segue questo sito sa senz’altro da tempo che Sheryl Sandberg, sul tema, è persona pressoché senza scrupoli.

“Ma allora mi cancello da Facebook e buonanotte: faccio prima”. Be’, se Facebook insiste troppo, potrebbe anche essere un’eventualità da prendere in considerazione. Del resto, Zuckerberg ha sempre detto che secondo lui la privacy “è roba da vecchi” e non interessa nessuno. Ma siccome la popolazione invecchia (specie quella italiana), forse inizierà a interessare sempre più persone, anche considerando quanto vada presa sul serio la scelta di impiegare il Data Mining, una tecnologia tanto potente quanto minacciosa per la privacy a livelli difficilmente immaginabili. Perciò, nel frattempo, (almeno) occhi aperti.

Marco Valerio Principato

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