domenica, ottobre 07, 2012
In Arabia Saudita, dove di recente la famosa azienda svedese ha aperto nuovi punti vendita, dal catalogo per il 2013 scompaiono “prodigiosamente” le donne. Una imperdonabile gaffe o una precisa scelta di politica aziendale?

di Bartolo Salone

La grande multinazionale svedese, che di sé ha inteso dare nel corso degli anni l’immagine di un’azienda moderna, aperta e democratica, in prima linea nella difesa dei diritti civili, inciampa proprio sulla questione della parità dei sessi e della dignità delle donne. Un’inchiesta condotta dal quotidiano free “Metro” di Stoccolma dimostra infatti che il colosso svedese dell’arredamento (che ha punti vendita dislocati in numerosi Paesi del mondo) ha deliberatamente cancellato dal suo catalogo per il 2013 destinato all’Arabia Saudita qualsiasi immagine femminile (ivi compresa, qui sfiorando perfino il ridicolo, la Statua della Libertà). La ragione? In Arabia Saudita non si possono pubblicare foto o immagini di donne con la pelle scoperta!

Il fatto ha suscitato reazioni di protesta non solo dai frequentatori del web, ma anche da parte di esponenti del governo svedese, di cui l’azienda pretenderebbe di incarnare i valori nel mondo. “Non si possono depennare le donne dalla società” ha commentato il Ministro svedese per l’agricoltura Ewa Björling, cui ha fatto eco la voce del Ministro per gli Affari europei Ohlsson, che ha definito “medievale” la decisione aziendale. Eppure, ha assicurato la portavoce del gruppo Ylva Magnusson, rispondendo alle polemiche, che la parità tra uomo e donna è un elemento fondante del codice etico dell’ Ikea e che l’esclusione delle donne dalla versione saudita del catalogo è in conflitto con i valori dell’azienda. Insomma, stando alle argomentazioni della multinazionale, sembrerebbe trattarsi di un semplice disguido, di un errore nei processi decisionali che l’azienda si propone di correggere, cercando una soluzione condivisa con le autorità saudite. Una svista, dunque? E’ possibile crederlo? Oppure una decisione di opportunità, condivisa dai vertici aziendali, al fine di non urtare la sensibilità religiosa di quel particolare bacino di utenza?

Il rispetto dell’altrui sensibilità e cultura è un valore senz’altro importante, soprattutto per una multinazionale che si trova ad offrire i suoi prodotti in realtà molto diverse dal contesto socio-culturale in cui normalmente opera e risiede l’impresa-madre. Un’impresa poi, volente o nolente, deve in certa misura adeguarsi ai costumi e alla mentalità dominanti nel mercato di riferimento se vuole riuscire a vendere i suoi prodotti. Da questo punto di vista, l’Ikea non è molto diversa dai suoi concorrenti, benché ami ammantare la sua politica commerciale di finalità etiche che alla prova dei fatti spesso non trovano riscontro nella realtà. Quello che semmai può dar fastidio è il voler piegare valori e principi importanti (almeno per noi occidentali) come l’eguaglianza sociale, la parità dei sessi, la stessa democrazia, a strategie di puro marketing; non certo l’esigenza, del tutto condivisibile, di rispettare cultura e sensibilità dei potenziali acquirenti. D’altro canto, direbbero però i latini, “est modus in rebus”. Se ci si rivolge ad un mercato che si sa avere una concezione del ruolo della donna e della famiglia così diversa dalla nostra, perché non pensare a cataloghi ad hoc, in cui siano presenti sì donne e bambine, ma con l’abbigliamento e in pose non ritenute offensive per la particolare sensibilità del luogo? Una soluzione di questo tipo avrebbe avuto quantomeno il pregio di rispettare la dignità della donna e al tempo stesso la sensibilità religiosa islamica del popolo saudita, evitando ritagli così “grotteschi” di immagini ad un catalogo già esistente.

Rimane infine da sottolineare il fatto che la multinazionale svedese non sempre in passato ha manifestato lo stesso scrupolo in relazione a vicende che hanno riguardato altri Paesi, fra cui anche l’Italia. Anzi in taluni casi la scelta aziendale è stata opposta, urtare cioè volontariamente la sensibilità religiosa o morale delle persone. Basti pensare alla campagna choc sulle coppie omosessuali che ha accompagnato l’apertura, lo scorso anno, di un centro Ikea a Catania, in cui campeggiava, sotto un enorme cartellone pubblicitario che ritraeva due giovani uomini mentre camminavano mano per la mano, il messaggio “Siamo aperti a tutte le famiglie”. In questo caso, l’azienda ha giustificato la volontaria provocazione facendo appello ai diritti civili. Ma pensiamo pure alla polemica che ha accompagnato, qualche anno addietro, il comunicato stampa (peraltro non necessario) con cui il gruppo giustificava la mancata vendita di presepi nei suoi punti vendita in Italia e nel mondo non già alla luce di banalissime motivazioni di tipo commerciale, che pure sarebbero state comprensibilissime (non produciamo presepi perché nessuno li compra più ormai), bensì richiamandosi a ragioni di principio, come quella sulla presunta “universalità” dell’albero di natale a fronte della particolarità del presepe (che è tipico della sola tradizione cattolica), oppure quella per cui il presepe non rientra nella tradizione svedese con la conseguenza che l’azienda (che è di origine svedese) non ha interesse a produrli. Non mi pare che in quell’occasione l’Ikea si sia curata molto della sensibilità religiosa cattolica e degli stessi utenti italiani (molti dei quali il presepe lo fanno ancora), rivendicando anzi una sorta di superiorità culturale “nordica”. Ma gli esperti di marketing in quel caso suggerivano di comportarsi così…

Gli esempi ora rievocati la dicono lunga circa il valore che questa multinazionale “etica” riconosce alla diversità culturale e al rispetto della sensibilità religiosa degli uomini e dei popoli. In realtà, nelle scelte di questa, come di altre multinazionali, la ricerca del profitto pare essere il solo fattore determinante, anche se, a posteriori, si cerca di convincere l’opinione pubblica della bontà della scelta aziendale intrapresa, invocando, a seconda delle contingenze, i diritti civili o, al contrario, il rispetto delle diversità culturali o delle sensibilità religiose. Chiediamoci allora se in una società secolarizzata come la nostra, in cui l’individualismo e il relativismo fanno progressivamente tabula rasa dei valori tradizionali, sia un bene lasciare alle multinazionali o ai potentati economici in genere il compito di definire per tutti la scala dei valori da seguire. La prospettiva è davvero inquietante!

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