giovedì, ottobre 18, 2012
Claudio Meldolesi, storico del teatro, sosteneva che la recitazione è in grado di contrastare l’emarginazione con l’immaginazione. Il successo del film “Reality” riporta alla ribalta questa attività di rilevante importanza nelle carceri italiane.

di Paola Bisconti

Sono trent’anni che si svolgono laboratori teatrali in carcere e questa attività ha permesso di superare l’idea che la prigione sia esclusivamente un luogo dove scontare la condanna. Nel contempo si è affermato il ruolo dei penitenziari come palestre rieducative per gli internati, che possono essere sostenuti con progetti di comunicazione sociale: appunto i laboratori teatrali. Il piano finalizzato al reinserimento dei detenuti nella società è stato sancito nella legge n°354, inoltre è diventato ancora più noto grazie all’ultima pellicola del regista Matteo Garrone che ha voluto come protagonista Aniello Arena, un attore detenuto della compagnia della Fortezza.

Il film ha ottenuto molti consensi durante la 65° edizione del Festival di Cannes. Aniello è un ergastolano che da 12 anni fa parte della compagnia teatrale diretta da Armando Punzo e nel film “Reality” interpreta un pescivendolo napoletano che insieme alla moglie organizza delle piccole truffe per arrotondare i propri incassi. Il protagonista ha una dote cabarettistica in grado di intrattenere amici e parenti, gli stessi gli suggeriscono di partecipare ad un provino (vincente!) per entrare nella casa del Grande Fratello. L’esperienza lo conduce alla notorietà fino a perdere la percezione della realtà e sfiorare la follia. L’uomo cade nella paranoia ed è costantemente convinto che qualcuno lo stia spiando. Il film esprime in modo eccellente la perdita dei valori e di senso della società attuale celebrando una non-realtà imperniata di magico.

Non è un caso, quindi, che sia stato scelto un attore detenuto per interpretare un ruolo cinematografico così sfaccettato. Aniello Arena rappresenta tutti i reclusi che attraverso l’esperienza teatrale hanno la possibilità di rinascere una seconda volta (proprio come ha sostenuto lui stesso il 1° ottobre durante l’intervento alla trasmissione “Che tempo che fa“ di Fabio Fazio andata). Il teatro in carcere consente a chi vi partecipa di instaurare un rapporto con l’esterno, condividendo le proprie problematiche anche con chi si avvicina a loro proprio con l’intento di comprendere in modo più dettagliato le situazioni e le emozioni di chi ha commesso uno sbaglio e per questo deve pagare una pena, ma ha anche la possibilità di correggersi e migliorare. Il sostegno offerto dai volontari e dai professionisti del settore è indispensabile per dare valore al mondo penitenziario subissato già di per sé da alcune problematiche molto gravi: i numerosi suicidi, il sovrannumero di detenuti nelle piccole celle, la scarsa cura dell’igiene e lo scandaloso abuso di potere da parte di chi dovrebbe tutelare gli internati e invece spesso li trasforma in vittime (Stefano Cucchi, Giuseppe Uva, Carlo Saturno, ecc.).

Già i fratelli Taviani collaborarono con tre compagnie teatrali che operavano nel carcere per la realizzazione del film “Cesare deve morire”, ma l’esigenza di valorizzare questo tipo di esperienza fu avvertita nel 1982 quando Riccardo Vannuccini fondò il Teatro Gruppo nel carcere di Rebibbia, per essere poi emulato nel 1984 da Luigi Pagano nella casa circondariale di Brescia. Da allora si sono moltiplicati i progetti e le attività che danno la possibilità ai detenuti di calarsi in svariati ruoli e utilizzare il teatro come uno strumento di salvezza.

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